Cultura del provvisorio, atto secondo. Devo mantenere la promessa. L’articolo di oggi riprende il tema di domenica scorsa, ma sposta l’attenzione dall’amore umano al servizio di Dio e della Chiesa. Colpisce che Francesco, parlando ai preti, lo faccia come se parlasse ancora a dei fidanzatini innamorati.
Ciò significa, probabilmente, che egli vede il rapporto fra prete e Cristo nella luce del mistero nuziale. Queste le sue parole: «Voi adesso applaudite, fate festa, perché è tempo di nozze… Ma quando finisce la luna di miele, che cosa succede? Ho sentito un bravo seminarista che diceva che lui voleva servire Cristo, ma per dieci anni, e poi penserà di incominciare un’altra vita… Questo è pericoloso! … anche noi più vecchi, anche noi, siamo sotto la pressione di questa cultura del provvisorio; e questo è pericoloso…Io mi sposo fino a che dura l’amore; io mi faccio suora, ma solo per un “tempino…”, “un po’ di tempo”, e poi vedrò; io mi faccio seminarista per farmi prete, ma non so come finirà la storia. Questo non va con Gesù!».
Così Francesco il 13 giugno 2013. Era papa da tre mesi esatti. Questo concetto l’ha ripetuto più volte, in seguito, davanti a preti e seminaristi, a sposi e fidanzati, a suore e novizie.
Papa Francesco è uomo dal carisma quasi miracoloso. Quando lui parla, il mondo si pone sempre in ascolto. Con estrema attenzione e con immensa simpatia per quest’ uomo che lo Spirito Santo è andato a pescare “quasi alla fine del mondo”. Il suo carisma poi, rende la sua parola ancor più persuasiva. Gli sono bastati otto mesi perché Time lo proclamasse uomo dell’anno per il 2013, l’anno stesso della sua elezione.
Perché ricordo tutto questo? Perché proprio io, che pure amo tanto papa Francesco – e chi mi legge abitualmente lo sa bene – stavolta sono costretto dalla mia coscienza a dissentire da lui su un paio di cose fra quelle che ha detto in occasione del discorso citato: un’osservazione è di natura teologica, l’altra è di natura per così dire strategica. Comincerò dalla prima che è anche la più importante.
Il papa scorge un parallelismo, un punto di confluenza fra l’unione coniugale e la vocazione presbiterale. Non è il primo e non è il solo. Anzi è opinione corrente, condivisa da tutti quelli che dicono (e sono molti) che il prete sposa la Chiesa. E chi lo dice lo fa come se fosse cosa ovvia, e nessuno se ne meraviglia più di tanto. Così come si dice che la suora è sposa di Gesù. Spero di non scatenare un putiferio se tenterò di riportare ordine in questi due modi di dire.
Delle espressioni appena citate quella della suora (la monaca) è senz’altro la più corretta. Infatti ogni suora sceglie per sé il Signore Gesù, «come sua parte di eredità e suo calice» (Sal 16,5), con la precisa volontà di instaurare con lui un vero rapporto nuziale: «io sarò solo tua, Signore, tutta tua: e di nessun altro, mai!». Un matrimonio bianco, ma un vero matrimonio.
Per una monaca (suora) il riferimento che papa Francesco fa al mistero nuziale, è sicuramente pertinente. Il voto di perpetua castità che la giovane suora pronuncia nel giorno della sua professione è al tempo stesso la causa e l’effetto di tale irrevocabile scelta. In questo caso dunque papa Francesco ha totalmente ragione.
Si potrà dire la stessa cosa per il monaco? Riterrei di sì, ma senza insistere troppo sull’idea dello sposo. Uomo (machio) Gesù, uomo (maschio) anche il monaco, forse altre immagini o figure potrebbero risultare più appropriate. Esempi? Prima di tutte le due più frequenti sulla bocca dei discepoli: Maestro e Signore; ma ancora amico, compagno, guida. Mirabile, come sempre, l’afflato mistico di Agostino: «Ti sarà maestro solo colui ch’è il maestro interiore dell’uomo interiore. (Ep. 266, 4); «Ti cercherò dunque, perché l’anima mia viva: poiché l’anima mia vive di te (De Trin. 14,8).
Sebbene il monaco e la monaca vivano entrambi in una comunità (convento o monastero), il loro cuore ha scelto di vivere in solitudine con il dolce Ospite della loro anima. Da questo incontro di affetti resta invece escluso il corpo come sacramento di unione: anzi quell’incontro, anch’esso nuziale con «l’amato del cuore» (Ct 3,1…) sarà possibile solo perché il corpo ne è rigorosamente escluso. Diversamente il monastero sarebbe un harem, non il luogo della beata solitudine.
La stessa cosa vale per il prete? Decisamente no. Si noti bene: parlo dal punto di vista della teologia.
Già, perché l’aspetto mistico-nunziale del ministro sacro col suo Signore non è affatto originario del primo statuto ministeriale nella Chiesa, stando al quale, nella Chiesa nascente gli Apostoli, Cefa e altri, avevano una donna (sposa) con sé (1Cor 9,5). E questo rimarrà vero per tutto il primo millennio sia in Oriente sia in Occidente, finché Gregorio VII non riscrisse tutto l’impianto canonico della Chiesa d’Occidente con la sua durissima e non so quanto provvidenziale Riforma. Se è vero, infatti, che nella Chiesa non ci sarà mai più un secolo di ferro (sec. X), è anche vero che la Chiesa romana avrebbe ancora conosciuto altre epoche di vergogne: faide intestine fra le grandi famiglie romane, cattività avignonese, la Chiesa dei Borgia e dintorni: terreno fertile per la Riforma pro.
Proprio la mistica nuziale applicata al rapporto Cristo–Chiesa–sacerdote fu anche all’origine della irreversibilità della scelta celibataria per il clero. Una volta che ti sei dato a Lui, anche se per interposta Chiesa, ormai sarai per sempre colui che rappresenta lo Sposo per la Chiesa. E lo sarai per sempre. Interrompere quel rapporto sarebbe sacrilegio. Come Cristo, così il suo prete: sacerdote in eterno. Bisognerà aspettare Paolo VI perché la Chiesa ardisca rivedere questa norma.
Personalmente io guardo la cosa con occhi diversi. Il ministero non va tanto visto in rapporto alla persona di Cristo, ma in funzione di un servizio alla Chiesa. Ministero appunto. Così per tutti i suoi ministri: vescovi preti e diaconi. Questa idea è chiarissima in una formula dell’ ordinazione del vescovo: «affinché tu conservi illibata la Chiesa, sposa di Cristo» (imposizione dell’anello).
Ma c’è un ma: nella comprensione comune, ogni servizio, anche quelli che possono essere a vita, possono avere un termine se il titolare del servizio lo chiede. Nell’ordine sacro ciò non è previsto: perché? Eppure Benedetto XVI s’è dimesso. Ed era un papa! Ora fa il monaco. Non è un abuso. È solo una conquista. Prima invece si diceva che non ci si può dimettere dalla paternità (Paolo VI), e che non si può scendere dalla croce (Giovanni Paolo II). Benedetto XVI ha dimostrato che si può.
Perché allora non potrebbe farlo un prete? Perché non farlo con i preti? Che si sappia che se un giorno non dovessero farcela più ad andare avanti, non cascherebbe il mondo, perché intanto il bene che uno ha fatto è già tanto e tanto prezioso, che Dio gliene ne darà il suo merito. Quanto al posto che tu lasci libero, va tranquillo: lo prenderà un altro, magari uno che avrebbe avuto paura a buttarsi senza rete di salvataggio, ma avendo visto che questa rete esiste, ora è più tranquillo e affronterà la sfida con maggiore serenità.
Allo stesso modo chi potrebbe negare merito a chi va in terre disagiate, lasciando il proprio ospedale e il proprio stipendio sicuro per andare a curare malati dove non c’è chi può pagare e dove si muore per niente? Un giorno essi torneranno a casa, ma chi potrà dir loro che quello che hanno fatto non è niente, perché è frutto della cultura del provvisorio? E se i nostri preti, ritirandosi dal ministero a tempo pieno dessero la loro disponibilità a un aiuto, saltuario o anche abbastanza continuato, e questo servisse a far stare più tranquilli quelli che restano e magari a far sì che qualcuno in più, vinta la paura del per sempre, si affacciassero alle porte dei seminari o dei conventi per dirci è permesso? Non sarebbe certo un piccolo vantaggio.
Sarà solo un sogno? Spero tanto di no. Dio è grande abbastanza per fare anche meglio.
Ancora sul provvisorio. Non solo rischi
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