Ci fu un tempo in cui albero e presepio non andavano d’accordo. Come fra Coppi e Bartali. Come fra la Lollobrigida e la Loren. Dovevi scegliere. Schierarti. O di qua o di là. Neutralitas non dabatur. Non potevi essere neutrale.
L’albero era di sinistra, il presepio di destra. L’albero era rock, il presepio era lento. L’albero era in, il presepio bacchettone.
Appena tre o quattro anni fa in alcuni supermercati non trovavi più le statuine del presepio sugli scaffali; trovavi solo lucine e palle di plastica per l’albero.
Ora qualcuno dice che con la crisi il presepio si stia prendendo la rivincita. Che c’entra la crisi? Vi risponderanno che è da sempre così: quando le cose vanno bene, Dio va in soffitta; quando le cose vanno male, Dio viene rispolverato e passa al contrattacco. Qualcuno probabilmente oggi dirà che papa Francesco fa bene al presepio, e che la sua ripresa potrebbe dipendere anche dalla simpatia del papa argentino. Non si può escludere.
Aspettando che analisti e sociologi si pronuncino, io cercherò di fare qualche mia considerazione, senza nessuna pretesa di sentirmi un esperto della materia. Quanto al mio fiuto per i sondaggi, confesso candidamente di sentirmi una frana.
Del resto sono ormai molti anni che la Chiesa la sua prova di buona volontà l’ha data: in piazza san Pietro, ai piedi dell’obelisco, campeggiano da anni, nel periodo natalizio, l’uno vicino all’altro a fare un unico set, sia un presepio a grandezza naturale sia un albero di grandi dimensioni, che proviene ogni volta da una parte diversa del mondo, dono di una qualche istituzione religiosa o civile o altro. Anzi prima si allestisce l’albero, e solo la alla vigilia viene benedetto il presepio. Una Chiesa dunque, quella in piazza San Pietro che è al tempo stesso rock e lenta, proprio come dev’essere, perché in San Pietro vanno tutti, i rock e i lenti, essendo la casa di tutti. Anche se, quest’anno, sembra proprio che i rock stiano impensierendo decisamente i lenti, proprio grazie allo strepitoso successo di Francesco. Fra l’entusiasmo di molti, bisogna dire, anzi praticamente di tutti.
Io a casa mia non ho mai fatto l’albero, (figuratevi da che parte sto, dunque!), di presepi invece ne ho diversi, più belli e meno belli, più grandi e meno grandi (diversi anche di piccolissimi), più cari e meno cari (nel senso di a me più cari o meno cari, ma anche nel senso più venale di più o meno costosi).
Uno ne ho, a me carissimo, quello di gesso, sai?, di circa un secolo fa, forse un po’ più. Quello è fra tutti il mio presepio, quello che “guai chi me lo tocca!”. È quello che ho trovato, già vecchio, in casa mia nascendo, un san Giuseppe con la testa già allora staccata di netto dalle spalle, ma che sta ancora al suo posto grazie a un filo di ferro previdentemente messo lì dall’artigiano che lo aveva fatto, ben cosciente del rischio decapitazione che quelle fragili figure di gesso potevano correre. Ci sono anche due bei pastori, tre pecorelle e due re magi (uno deve essersi perso per strada). Figure d’una semplicità commovente, che mi hanno provocato un tuffo al cuore, quando a Betlemme, in un piccolo museo di presepi, ne ho visto uno quasi identico. Purtroppo il cartellino diceva solo che era italiano, troppo poco, questo lo sapevo anch’io. Speravo mi dicesse almeno la regione e l’epoca d’origine. Invece niente.
Ogni anno, tirarli fuori dalle scatole è un rito, un’emozione; rimetterli nelle scatole, ogni volta è una pena. Anzi, ormai che gli anni non sono più verdissimi, ogni anno sono un po’ anche una scommessa, e il saluto, nel rimetterli a posto è sempre lo stesso: “ci rivediamo fra un anno, se Dio vuole” o, più laicamente: “se ci saremo ancora”.
Anche quest’anno è andata proprio così, per la prima parte, e andrà proprio così anche per la seconda: “se Dio vuole”, “se ci saremo ancora” gli dirò fra una ventina di giorni, quando bisognerà ritirare tutto e rimettere tutto nelle scatole. E saluterò tutti con queste parole, più o meno: “buon riposo, carissimi; dormite tranquilli. Quando verrà il momento, verrò io a svegliarvi”. Il giorno dopo la casa mi sembrerà più vuota. Poi l’abitudine riprenderà il sopravvento. E non ci penserò più. Fino al natale prossimo.
Così è ogni natale. Da quando ero bambino. E poi al Seminario Romano, dove sopra la mia libreria, mettevo le statuine di gesso di cui dicevo sopra: era un tempo di emozioni profonde, di gioia intima, vera, nell’attesa di Colui che solo ci avrebbe potuto salvare. Una salvezza che aspettavi da un giorno all’altro, cui il giorno liturgico avrebbe dato solo l’inizio, ma che per realizzarsi, per compiersi al tutto, avrebbe dovuto attraversare i secoli futuri e giungere fino a me, e poi superarmi e prolungarsi ancora.
Il cuore del ragazzino prima, dello studente poi, poi del giovane prete si riscaldava, si commoveva ogni volta che sentiva intonare in gregoriano, l’En clara vox redarguit: era l’inizio della novena del Natale, e ringraziava Dio per avergli comunicato e donato questa fede e questa assoluta certezza.
Questo clima è durato a lungo, ed è continuato anche una volta raggiunta la cosiddetta maturità, di cui non saprei proprio dire cosa sia, perché proprio quando la vedi o la senti arrivare, senti che il prodigio comincia a venir meno, che tutta la poesia rischia di sparire, l’entusiasmo di spegnersi, che quasi sarebbe meglio non crescere, rimanere sempre bambini per poter ancora credere alla stella cometa, ai tre re magi, ad Erode che ammazza i bambini ma intanto quello giusto gli sfugge sempre… e l’annuncio dell’angelo ai pastori!
Già perché poi non è che la teologia ti aiuti a credere e a gustare il divino mistero del Bambino di Betlemme, anzi è proprio qui che cominciano i guai: quando incominci a riflettere sul come poté essere, sul come posso immaginare questo mistero, io uomo del XXI secolo, il secolo di internet e delle sonde spaziali.
Allora mi nascerebbe in cuore il desiderio di un mistero più semplice da indagare, più facile da capire e da vivere. Da adorarne la profondità, da ammirarne la bellezza, da amarne la tenera dolcezza.
Ma poi penso anche a tutto il resto. A quanto l’abbiamo resa complicata quella che all’origine si chiamò semplicemente La Buona Novella, riducibile a poche parole: Dio ci ama, Gesù Cristo, suo figlio è amore, è venuto per insegnarci ad amare proprio tutti, anche i nemici. Per questo i nemici dell’amore lo hanno ucciso. Ma Dio l’ha risuscitato da morte, perché noi potessimo credere che l’amore vince sempre sull’odio.
Certo, queste parole si potrebbero “rimpolpare” con molte altre… ma non chiedetemi quante: se solo penso che nei soli cinquant’anni del dopo concilio, la Chiesa cattolica, ha prodotto solo a livello ufficiale, centinaia di migliaia di pagine, mi viene la pelle d’oca. Per chi l’avrà scritte? Certo non per me, che non ne ho lette più di poche decine. E a che le avrà scritte? A servizio della fede o della disciplina interna alla Chiesa? Ma io a chi, a che devo credere, alla buona novella o alla disciplina della Chiesa?
Sicché oggi mi pare di capire meglio come poté essere che un grande innamorato di Cristo, Charles de Foucauld, il grande mistico e testimone del Sahara, poté sentire per un certo tempo il forte fascino dell’Islam: era così semplice e così lineare quella parola e quella dottrina! Allahu akbar, Dio è grande! mi ricordo che una simile professione di fede bastò a Filippo per battezzare l’Eunuco della regina Candace. La teologia non l’avevano ancora inventata. La fede poteva ancora espandersi. Vittoriosa. E felice!
Pace fatta tra albero e presepio. Ma la fede?
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