Sono rientrato in Italia, stanotte (sabato), verso l’una e mezzo, e ho potuto finalmente riprendere contatto con la stampa italiana. Entrato in camera ho dato un’occhiata ai titoli. Trasecolavo! Il papa rilascia un’intervista a Civiltà Cattolica, la rivista ufficiale della Compagnia di Gesù, l’ordine religioso a cui apparteneva (e in certo modo appartiene ancora) Francesco, l’attuale vescovo di Roma. Tralascio gli aggettivi che mi sono subito venuti in mente, per timore che qualcuno mi dia del plagiato infatuato esagerato puerile o peggio ancora.
La verità è che io stanotte sono definitivamente uscito da un incubo: quello che mi seguiva, mi ossessionava, mi perseguitava da almeno una ventina d’anni, forse una trentina, e che mi portavo dentro come un peso sotto il quale le mie povere forze sembrava stessero per cedere: la paura della fine.
Della fine della Chiesa come realtà di mistero e di salvezza, come ragione della speranza in un oltre che solo poteva dare senso a tutto lo sforzo d’un universo in continua crescita e espansione. A tutta la mia vita e alla vita degli umani.
Vedevo le chiese svuotarsi, la gente prendere altre direzioni, i giovani rispondere ad altre suggestioni, preferire altri divi, costruirsi altri dèi, correr dietro al denaro come unico valore della vita, che tutti gli altri comprende: potere, sesso, successo, piaceri senza scrupoli né limiti.
Dove miro con questo strano discorso? È presto detto: ritenevo certamente possibile e fors’anche probabile, che in un futuro neppure troppo lontano, ciò che è già stato in passato per altre religioni, potesse ripetersi ai nostri giorni per la mia. Quante ne sono esistite che ora non esistono più? E questo dovunque nel mondo: in Asia e in Africa, nei due sub continenti americani e in Australia, nelle innumerevoli isole della Polinesia e nella stessa Europa.
E se un giorno toccasse anche alla mia? Mi guardavo indietro e vedevo come le nuove religioni spesso si sono avvalse dei lasciti delle vecchie, e con le pietre dei vecchi templi se ne sono costruiti di nuovi ai nuovi dèi. Non è ciò che già accade nel nostro mondo moderno, dove si sta già banchettando con ciò che resta dei vecchi culti, sulle nostre stesse mense diventate deserte? Chiese trasformate in musei, in scuole di recitazione e di danza, in sale da mostre d’arte senza pudori né rispetto per l’originaria vocazione del luogo; e conventi e monasteri che si trasformano in alberghi di lusso; e seminari nuovissimi e deserti che vengono affittati o venduti come scuole, uffici pubblici e altro ancora.
E ancora: come un tempo le feste dei pagani sono state mantenute e trasformate in feste cristiane, ora avviene l’inverso: le feste cristiane restano nel calendario, ma cambiano di senso: buone occasioni di vacanza, di turismo, di svago, di baldoria, di sfogo dei sensi nel mangiare, nel bere, nella pratica ormai invalsa del turismo sessuale. Mantenere il nome, cambiare il senso: questa la parola d’ordine.
Così mi sentivo (male!) fino a stanotte, quando ho letto e capito. No, ciò non sarà! Ciò non sarà, almeno fin quando ci sarà papa Francesco, più ancora, finché rimarrà fra noi il suo lascito.
Senza di lui io sarei stato un uomo d’un mondo che fu, passato, finito. Finito io stesso. Dimenticato. Nato e morto troppo tardi perché un tale orrore mi potesse essere risparmiato; nato e morto troppo presto perché io possa fare buon viso al mondo nuovo.
Quanto durerà ancora la mia Chiesa?, mi chiedevo spesso atterrito, mortificato; ciò che è accaduto alle divinità azteche o incas, agli dei di Grecia e di Roma, di Mesopotamia e d’Egitto, toccherà ora anche al mio Dio?
Mi era chiaro che per evitare tutto questo il cambiamento doveva essere vero, profondo, radicale, e toccare i gangli più profondi e sensibili perché un nuovo vigore corresse nelle ossa e nel sistema nervoso della Chiesa.
Ma non era da quelli che sedevano sul soglio di Roma, invincibilmente vincolati a criteri ritenuti invalicabili, che ci poteva venire l’aiuto. C’era bisogno d’uno scossone nuovo, inedito, una katastrophè, una rigenerazione. Anche Benedetto XVI ci si era arenato riguardo ai ministeri ordinati (in particolare sul presbiterato) alle donne: “Giovanni Paolo II ha preso posizione e la questione sembra definita per sempre”, aveva detto.
Intanto Francesco continua a sbalordirci; tanto che davanti a lui, anche quanti di noi s’era dato da fare per aprire porte e finestre al nuovo spirito del Vaticano II, diamo l’impressione d’essere stati solo dei poveri apprendisti stregoni.
Perché Francesco ormai non è più soltanto una sorpresa, una speranza per tutti, credenti e non credenti. Con queste sue ultime uscite egli sembra accreditarsi come una specie di nuovo San Paolo, quasi un rifondatore della parte più umana del cristianesimo, quella parte che a volte sembra cedere terreno, nella tradizione della Chiesa, alle più ardue e gratificanti speculazioni sulla natura e sulla persona divine del Verbo fatto carne. In realtà il popolo cristiano sembra trovarsi a disagio di fronte alle speculazioni dei teologi, per lasciarsi conquistare dalle nostre parole quando ci soffermiamo sui misteri di Dio, lasciandoci sedurre dalla semplicità disarmante delle parole di Gesù di Nazaret quali i Vangeli nella loro spontaneità ci hanno trasmesso.
Se così fosse noi saremmo all’inizio d’una nuova fase della storia cristiana, a una sua vera rifondazione nella parola e nella persona di Francesco vescovo di Roma. Assisteremmo così a un terzo periodo dell’era cristiana: dopo il Millennio della Chiesa fondata sul Vangelo “secondo San Paolo”; dopo il Millennio della Chiesa strutturata sull’ecclesiologia di Gregorio VII, sulla teologia della scolastica e sui canoni del Concilio di Trento (il Millennio lungo della Chiesa, lo vorrei chiamare, conclusosi solo il 13 marzo 2013, con l’elezione di Francesco a Vescovo di Roma). In quello stesso giorno nasceva il terzo Millennio della Chiesa, il Millennio di Francesco e del Vangelo ritrovato, povero e semplice, liberato da tutti gli orpelli di cui l’hanno caricato i teologi. Quel Vangelo che l’uomo semplice accoglie con gioia, perché ne ha colto e ne ha capito l’essenziale.
Nel nuovo Millennio, se il Cristo vorrà ritornare sulla terra, non troverà più ad aspettarlo un Grande Inquisitore che vorrà solo rispedirlo a Chi ce l’ha mandato (perché Lui faccia il suo mestiere di salvare l’uomo, quanto alla Chiesa lasci fare a loro, agli uomini di Chiesa, che soli sanno ciò che devono fare).
Non più un Grande Inquisitore, dunque, ma un Grande Pastore, ci è stato dato: cuore italiano, seme buono seminato in terra argentina, dove anche l’erba sa di sale, che solo le pecore e le capre possono mangiare. Capre e capri senza più distinzione nell’ovile di Dio, se è vero (così risulta dalla citata intervista e da altre sue dichiarazioni) che Francesco sta pensando a uno sgambetto clamoroso: fare riavvicinare tutti, sì che capretti e agnelli mangino tutti nello stesso ovile, alla stessa mangiatoia, che quando avranno solidarizzato, chi avrà più cuore per separarli ancora, per mandarli le une alla vita, gli altri al macello? Lui, Francesco, no di certo, povero papa, che non è venuto per giudicare né il mondo né i gay né i divorziati né chi ha abortito.
In alto i cuori! Il Terzo Millennio della Chiesa è appena incominciato. E statene certi: ne vedremo delle belle.
Il 3° millennio ha il suo nome: Francesco
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Una risposta a “Il 3° millennio ha il suo nome: Francesco”
Non ricordo se già le ho fatto questa domanda, ma caso mai la rifaccio. mi permette di mettere su Facebook il link ai suoi articoli. La ringrazio se vorrà rispondermi.
Rita