Ipazia: la donna, il caso

Ancora su Ipazia? Si, non solo ne vale la pena, ma per me è doveroso.
Doveroso, perché devo un chiarimento a chi, leggendo il mio precedente articolo, scritto quasi di getto subito dopo la visione del film, è rimasto sconcertato del mio totale silenzio sulla figura di quella donna, a giudizio dei più un’eroina e una martire: una vita dedicata totalmente alla filosofia e alla scienza del cielo, in una prospettiva del tutto secolare e laica. Una grande figura di donna certamente, una sacerdotessa laica della Libertà e del genio femminile.
La nobile figura di Ipazia, per quanto contiene in sé di profetico, è certamente l’aspetto più promettente e stimolante del tristissimo fatto narrato in quel film: che, non fa certamente onore ai cristiani.
Sono grato alla ben nota teologa Lilia Sebastiani che mi ha fatto presente di essere rimasta stupita del fatto di non aver trovato nel mio articolo una sola parola di apprezzamento su quella grande figura di donna che previene e sconta in anticipo, sulla propria pelle, i terribili conflitti che gli odi di religione, di qualsiasi religione si parli, hanno sempre provocato e continueranno a provocare finché il “sacro” nome di un qualunque Dio continuerà a essere venerato e invocato come “unico” salvatore del mondo e del genere umano.
Ho sottolineato le parole “sacro” e “unico” perché sono esse che contengono, a mio avviso, la chiave di ogni dramma attribuibile all’idea stessa di religione.
“Sacro”, nel suo senso etimologico più stretto e più vero: “colui, o qualcosa, da cui bisogna tenersi lontani”: sacralità, dunque come lontananza, alterità, separazione, segregazione: ma anche come terribilità, temibilità. Riverenza che si sposa al timore. Per quanto io lo ami, Dio non potrà mai essere per me “il mio vicino di casa”.
“Unico”. È proprio questo l’attributo della “religione” che sta alla base di ogni conflitto per la fede. Finché io mi limito a considerare la mia fede come l’unica vera, ma senza per questo pretendere di poterla o doverla imporre agli altri, tutto può andare ancora bene. Ciò che viene messa in discussione non è la “missione” che sostenne l’opera missionaria della Chiesa nascente; ciò che è in causa è la volontà, la determinazione di condurre tutti alla mia fede, con le buone o con le cattive. È qui che nascono i pericoli più gravi, e io posso anche arrivare a considerare un opera buona la soppressione del piccolo pagano appena battezzato per salvarne l’anima, altrimenti esposta, una volta cresciuta, al rischio di tornare alle antiche superstizioni. Sopprimere il corpo per salvare l’anima. È successo anche questo. Questa tentazione di far rispettare in tutti modi la supremazia conquistata, poté certo giocare un grande ruolo nei disordini di quel periodo di difficile transizione e di assestamento.
Nel caso di Ipazia concorse però anche un altro pregiudizio: Ipazia era una donna. E nella Chiesa di allora una donna “maestra di scuola” era certamente un’intollerabile arroganza. La filosofia era una disciplina per soli uomini, e solo gli uomini potevano apprenderla e soprattutto insegnarla. Lo stesso si può dire probabilmente dell’astronomia. Se qualche eccezione si poté forse avere nell’impero pagano, ciò non poteva più essere tollerato in un impero diventato ormai ufficialmente cristiano.
È uno strano paradosso, questo, specialmente quando si tratta di quella che suole e ama definirsi la religione dell’amore e della radicale uguaglianza di tutti i suoi figli davanti a Dio. Più che indignarci, dovrebbe farci riflettere il fatto che l’Europa moderna si rifiuta di riconoscere la fede cristiana fra i caratteri costitutivi della propria identità storica, culturale e civile. Forse perché fra i suoi caratteri costitutivi, non ne trova due, nella Chiesa, che sembrano invece essenziali all’Europa dei nostri giorni, e si può ben congetturare, all’Europa del futuro? È una domanda.
Questi due principi sono quello della tolleranza, fin qui accettata solo a condizione che non metta in discussione la superiorità della Chiesa e della dottrina cattolica, e quello della pari dignità e delle pari opportunità e competenze dei due sessi nella Chiesa. Per quanto riguarda il primo, qualcuno ricorda le dure discussioni in aula conciliare quando si parlò della libertà religiosa, e i tanti ostacoli continuamente sollevati da Roma al dialogo ecumenico?
Ma è soprattutto del secondo che qui intendo parlare malgrado il pochissimo spazio che ancora mi resta.
È ormai un dato acquisito e universalmente riconosciuto nei Paesi di antica cultura cristiana, la parità di opportunità fra i due sessi in tutti i campi dell’agire umano, dalla politica all’insegnamento, dall’imprenditorialità alla ricerca scientifica, dal servizio militare alla medicina, dallo sport al giornalismo e a tutto il resto.
I risultati di tale parificazione sono sotto gli occhi di tutti, e sembra anzi acquisito che in molti di questi settori la presenza delle donne non solo è servita a colmare lacune, ma addirittura abbia rappresentato un plusvalore assoluto: sia perché ha stimolato nei maschi una mentalità di concorrenza che ha portato solo vantaggi in tutti i settori, sia per quel quid che solo le donne posseggono in proprio e che solo loro possono apportare in quei settori.
Ebbene, da questa salutare e stimolante competizione solo la Chiesa cattolica risulta essere rimasta assente: una dopo l’altra infatti, le varie Chiese delle diverse confessioni si stanno adeguando alla tendenza in atto, aprendo le loro gerarchie alle donne, anche ai massimi livelli.
So bene che oggi tutto questo è improponibile nella Chiesa cattolica. Lo so, ma questo non vuol dire ch’io sia convinto che ciò sia un bene. E certamente non è un bene che la stessa discussione sia chiusa in una specie di non possumus ottocentesco che ha tutta l’aria di voler essere definitivo.
Ma quanti ministeri si potrebbero già da ora aprire alle donne, ognuno dei quali potrebbe rappresentare una tappa d’avvicinamento a un ministero, che se anche, per problemi di terminologia, non si vorranno chiamare presbiterato, potranno avvicinarsi ad esso e ad esso venire via via assimilati? Ma ora devo chiudere. Il seguito a un prossimo articolo.


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