Il Concilio Vaticano II, il grande incompiuto


Volli, fortissimamente volli andare a studiare a Roma. Lo volli da quando venne a Perugia, come nuovo arcivescovo, mons. Pietro Parente. Era il 1955.
Fu vescovo di Perugia solo per 4 anni. Bastarono per far nascere in me la determinazione di andare a studiare a Roma.
Per bruciare le tappe, chiesi e ottenni di lasciare a metà il liceo classico per accedere subito al primo anno di filosofia presso il Pontificio Ateneo Lateranense. Fu così che cominciò la mia storia di prete non molto amato dai preti. Proprio perché venivo da Roma. Un professore in più. Sembrava ce ne fossero già troppi.
Vorrei riprendere da qui il cammino avviato con l’articolo Il Concilio nel ricordo di uno che c’era (14.10.2012). Solo che questa volta, rispetto a un mese fa, chi mi legge noterà una differenza: allora mi ero sforzato di scrivere «con la testa e il cuore di allora, di quel magnifico mattino di ottobre»: oggi invece mi sento costretto a scrivere con la testa e il cuore di oggi: «testa e cuore solo molto più vecchi, ma non per questo più saggi, più sapienti, più esperti, più puri; forse solo più stanchi, un po’ più delusi, un po’ più amari»; la verità è che nella mia vita, ormai già lunga abbastanza, ho visto cadere molti aquiloni! A ognuno di loro avevo appeso un sogno, tutti caduti con loro.
Tenterò di esprimere il mio stato d’animo percorrendo un sentiero insolito, certo inusuale, forse anche inedito, attraverso questi 50 anni. Un cammino in cinque tappe, quanti sono i papi che hanno coperto con la loro vita, con la loro parola, con le loro imprese questo mezzo secolo di storia di cui sono stato spettatore, quasi sempre dalla triste panchina nella quale sono stato relegato.
Giovanni XXIII: Chi non ricorda il suo discorso della luna (purtroppo l’undici ottobre, quest’anno pioveva e la luna non s’è potuta vedere, almeno in Umbria), la sua carezza ai bambini, la sua visita ai carcerati di Regina cieli e ai bambini malati del Bambin Gesù di Roma? E il suo viaggio in treno a Loreto e ad Assisi, la prima licenza premio che “quel di se stesso antico prigionier” si concedeva dopo quasi cento anni? Il cielo sembrò riconciliarsi con la terra dopo averle scagliato addosso tutti i suoi fulmini. Chi non sentì rinascere in cuore la speranza?
E Paolo VI, il papa gentile, tormentato dai suoi dubbi come è sorte di ogni coscienza delicata e scrupolosa: l’uomo che chiuse il Concilio e dette avvio e formale compimento alle riforme volute dal Concilio; ma anche l’uomo dell’Humanae vitae che, avendo interrotto il relativo dibattito nell’aula conciliare, aveva riservato a sé la decisione ultima in materia (stessa procedura per il dibattito sul celibato dei preti, ma almeno aprendo loro una via d’uscita non traumatica dal celibato); l’uomo dell’abbraccio con Atenagora, a Gerusalemme, il primo abbraccio dopo novecento anni di scisma; l’uomo che si inginocchiò supplice ai rapitori di Moro, ricevendone solo un atroce rifiuto. Erano le speranze che cominciavano a smorire.
E Giovanni Paolo I, l’uomo che ricordò agli uomini del nostro tempo che Dio, prima d’esserci Padre ci è stato anche madre. Ci sentimmo tutti rinascere in cuore la gioia di saperci amati.
Poi venne Lui, Giovanni Paolo II, il primo papa straniero dopo quattro secoli e mezzo di italianità ininterrotta. Il papa globetrotter, l’uomo che insegnò ai papi che quando hai sbagliato devi chiedere perdono. Il papa che amava i giovani e dai giovani amato, mito dei papaboys, quelli che zaino e sacco a pelo sempre in spalla. Il papa dei milioni di fedeli in fila per giorni per un saluto d’un attimo alla salma già nella bara, finalmente immobile dopo anni di parkinson. Il papa che riempiva le piazze mentre le chiese si svuotavano; che cercò di frenare d’autorità l’esodo dei preti, ma non riuscì a ripopolare i seminari né a scongiurare i pedofili… Tutto questo fu il papato di Wojtyla, il papa a cavallo di due millenni. La tragica grandezza del prometeo amico del genere umano, ma destinato a soccombere al suo fato.
E, infine, Benedetto XVI, o theológos, la giovanissima brillante speranza della teologia tedesca, amico e collega dello svizzero Hans Küng, punte di diamante della teologia progressista al Concilio, finiti l’uno contro l’altro, l’uno papa di Roma, l’altro cui l’antico collega tolse perfino la cattedra. Due icone, due metafore del Concilio, dei suoi esiti e delle sue contraddizioni. Per ora ha vinto Ratzinger, ma la Storia non ha ancora emesso il suo verdetto.
E io? Come collocarmi fra queste due metafore, quale icona far mia? Mentre mi ponevo questa domanda m’è tornata in mente una pagina con la quale concludevo un mio libretto, tuttora mio orgoglio e mia rovina. In quella pagina mi sono pienamente, anche oggi riconosciuto. Vi disegnavo il mio sogno di una Chiesa oltre la chiesa. Se qualcuno ci si riconosce, vi supplico, fatemelo in qualche modo sapere!

«Qual è la mia speranza in un momento così delicato e carico di responsabilità verso la storia e verso l’Uomo?
«Io vorrei che dalle nostre file cristiane, dalle file dei preti soprattutto, nascesse e si accrescesse un movimento di libertà e di liberazione, che espandendosi e dilatandosi a macchia d’olio raggiungesse tutti gli angoli e tutti i lembi, anche i più remoti, della Chiesa.
«E vorrei che questo movimento portasse nella Chiesa uno spirito nuovo, costringendola ad abbandonare tutto ciò che in essa è cultura, ideologia, manicheismo.
«E vorrei che il volto nuovo della Chiesa non fosse più il volto d’un dio fatto a immagine e somiglianza dell’uomo del medioevo e della controriforma, ma fosse il volto stesso del vero Dio, eterno e immutabile, certo, ma visibile e riconoscibile oggi, perché incarnato nel tessuto vitale e sanguinante dell’Uomo d’oggi.
«E vorrei che nella Chiesa d’oggi, assai più delle leggi contasse la grazia, assai più del diritto contasse la carità nella libertà, assai più delle tradizioni contasse la creatività inesauribile dello Spirito.
E vorrei che nella Chiesa d’oggi non vi fosse più posto per carriere e onori, per distinzioni artificiose e ingiustificate tra clero e laici, tra celibi e sposati.
«E vorrei che nella Chiesa ogni fedele avesse un posto suo proprio e i ministeri fossero lasciati alla libertà dello Spirito, pur sotto lo sguardo attento dei pastori.
«E vorrei che sul volto della Chiesa d’oggi brillassero le più splendide gemme della sua corona: la carità, la verità congiunta alla veridicità, la libertà dello spirito, la povertà. Ma vorrei anche che queste gemme non fossero false.
«E vorrei che tutti i cristiani, guidati dal soffio gagliardo dello Spirito, uscissero dal ghetto della propria individualità e delle proprie abitudini per guardare con cuore nuovo ai propri fratelli: allora gli occhi incontrerebbero altri occhi, le mani stringerebbero altre mani, i piedi seguirebbero altri piedi, la vita si arricchirebbe d’altra vita, l’entusiasmo sosterebbe l’entusiasmo, la libertà difenderebbe la libertà, la verità garantirebbe la verità, la gioia alimenterebbe la gioia… e l’Uomo ritroverebbe l’Uomo e la gioia e l’orgoglio d’essere Uomo.
«Nella Chiesa.
«Perché, io lo credo fermamente, non v’è posto per l’Uomo al di fuori della Chiesa.
«Della vera Chiesa. Per questo, se vorrò lottare per l’Uomo dovrò lottare per la Chiesa. Allora la mia vita ritroverà il suo senso e la sua ragione. E la sua fecondità.
«E la sua gioia.
«Nella chiesa.

Era il 1978. Il sogno non s’è ancora avverato. Un giorno chissà?!

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