Libertà vo cercando ch’è si cara


Qualcuno mi dice o mi scrive che parlo troppo di papa Francesco. Lo penso anch’io. Però succede che quando arrivo al venerdì o al sabato mattina e debbo pensare a scrivere il mio pezzo per la domenica seguente, aprendo il giornale trovo sempre Lui, papa Francesco, a fare da mattatore sulla scena.
Non che non ci sia altro su cui riflettere, su cui discutere, da deprecare o da applaudire. Ma poi, alla fine, per me, per la mia sensibilità, niente che possa competere con lui, sangue italiano in trasferta, che per andare dalla Liguria a Roma ha deciso di prendere la circolare esterna: Piemonte prima, Argentina poi, infine il Cupolone e la Città eterna.
Non sono neppure due anni che c’è arrivato, e non sta fermo o zitto neppure un giorno, è ospite quasi fisso delle prime pagine dei giornali italiani, e se non delle prime, son rari i giorni che non figuri con evidenza nelle pagine interne. Così anche oggi, venerdì 24 ottobre, la notizia è di quelle che meritano risalto: il papa denuncia la pena dell’ergastolo, e la bolla come “morte nascosta”. L’ergastolo come pena che non finisce mai, ci dice Francesco, non è umana, è una pena che rinnega la sua stessa ragion d’essere per accontentarsi di fare da deterrente. Nata per scongiurare il pericolo del patibolo, non rinuncia a trasformarsi in una più sofisticata tortura senza fine.
Come ama fare spesso, Francesco con poche parole spariglia il gioco e manda in malora le ipocrisie. Per lui l’ergastolo non è affatto una pena più umana e misericordiosa della pena capitale che ti toglie la vita in un colpo solo, ma è invece “una morte nascosta”, per niente più mite della ghigliottina o della cicuta o della fucilazione. Queste ti ammazzano con “una botta e via” quello è una morte lenta che ti fa sentire il suo fiato sul tuo collo per tutto il resto della tua vita.
E bisogna poi tener conto che c’è ergastolo e ergastolo, quello semplice e quello ostativo, quello cioè che può finire e quello che non finisce mai, alla “lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Quello che ti fa dire non isperate mai più veder lo cielo: un addio al mondo, alle gioie della vita, dell’amore, del libero cielo e della libera terra; addio alla scoperta di terre nuove, ai nuovi amici che non siano i tuoi compagni di cella, spesso i tuoi aguzzini più veri, il tuo incubo quotidiano e notturno, la tua ossessione più assidua, la sindrome, diresti, dei quattro capponi di Renzo .
Morte nascosta, la chiama il papa, umiliazione e tormento crudele per quello star sempre l’uno sull’altro, per quell’avere tutto in comune, sonno e veglia, tavola da pranzo e cesso. Dove manca tutto, aria e privatezza, decenza e pudore, dove anche il tuo sonno, i tuoi sogni e i tuoi incubi saranno necessariamente condivisi. Dove anche le tue masturbazioni potranno avere testimoni.
E poi il sovraffollamento: “ogni nuovo carcere è già esaurito prima ancora d’essere inaugurato” afferma il papa, e il tormento e le gratuite crudeltà degli agenti, quando si trasformano in aguzzini, servono solo a esacerbarti l’animo; sì perché l’inutile crudeltà può avere un fascino enorme sull’uomo mediocre e il poter scaricare le proprie frustrazioni sul pollo più debole di te, ti fa sentire un gallo anche se ti mancano del tutto le galline e tu allora godi nel beccare la testa del vicino di becco fino a volerne vedere il sangue e magari a procurargli la morte.
E poi c’è quell’altro tormento, quello ancora più atroce, quello del carcerato in attesa di giudizio, in “via precauzionale“ perché c’è il rischio della fuga e dunque dell’impunità. E allora beccati un mese, un anno, anche diversi anni in prigione a volte, in attesa di un processo che, come la “lettera” di Modugno, “mai non arriva”. E intanto passa la tua vita, vola: perduta sciupata buttata violentata stuprata vomitata nel secchio dei bisogni nell’angolo della tua cella sovraffollata.
Che meraviglia allora se ogni tanto qualcuno s’impicca, potendolo fare, perché è mica facile farlo in carcere! – quando si inaspriscono le rivalità fra i troppi ospiti delle anguste celle a rischio di pazzia, come per i topi d’allevamento e da esperimento in ambienti troppo ristretti.
E qui siamo ancora nel “normale” perché poi ci sono i veri e propri lager, i campi di concentramento e le prigioni tipo Guantanamo, e la crudeltà che diventa il passatempo, perché vivaddìo dovranno pur divertirsi in qualche modo quei poveri aguzzini, che t’immagini la noia a star sempre lì a vedere quei topi di fogna che fa schifo a vederli e tu almeno te la spassi un po’ col frustino in mano e con il disgraziato condotto a guinzaglio camminando gatton gattoni, nudimadre magari, e tu che ti senti un padreterno perché sei tu che li porti a guinzaglio proprio come un cane…
Già, perché anche qui ci sono “le risorse del mestiere” di cui ci canta il barbiere di Siviglia, se no come fai a divertirti, e hai idea della noia di star sempre lì, ore e ore, a parar quelle bestie che, quando son nude o vestite di quegli stracci, non hanno niente di bello da farti vedere, che solo a toccarli te ne schifi? Allora la tortura può essere anche il diversivo, “la capacità umana di crudeltà…una passione, una vera passione” dice Francesco, “un plus di dolore” che trova i suoi luoghi simbolo “nei centri clandestini di detenzione o nei moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e di pena”.
Così papa Francesco. E io?
Già io: che farei, che direi se mi trovassi a dover subire un ingiusta detenzione preventiva “in attesa di processo” come l’Alberto Sordi del bel film di Nanni Loy?
Me lo sono chiesto spesso: che farei? Non lo so. Forse per qualche tempo (breve!) lotterei perché la mia innocenza venga riconosciuta. Se dovessi però convincermi che non c’è niente da fare di fronte a una giustizia così latitante come la nostra, forse in silenzio, senza strepiti e senza preavvisi mi lascerei morire, forse di fame… di inedia… Tanto…!
Tanto che senso avrebbe più vivere? È tanto breve la vita che figurati se avrei voglia di sprecarla in prigione! Tanto quello che poteva darmi, in grandissima parte la vita me lo ha già dato, e quel poco che potrebbe darmi ancora non mi fa gola per niente. Oltretutto ho sempre avuto un buon rapporto con la morte, da tempo la considero una buona amica, mai una nemica. Essa del resto ha saputo più volte lasciare la sua presa su di me, accettando di offrirmi qualche altra chance. Non si può chiedere troppo a nessuno, neppure a un’amica come Sorella Morte. Allora ben venga, e che non mi lasci soffrire troppe umiliazioni e troppi stenti. Al di là di quella porta scura c’è un bel sole che mi aspetta, mentre dal carcere il sole continuerei a vederlo solo a scacchi da dietro all’inferriata delle sbarre. Un sole malato, triste, freddo come la delusione e la morte.
Vaneggiamento? Spero tanto di sì. Spero tanto che il buon Dio me la risparmi una prova tanto dura e amara. Morendo vorrei essere tenuto per mano da Sorella Morte che mi accompagni a rivedere tutti quelli che ho amato e che mi hanno preceduto lassù, dove il Sole regna eternamente e senza nubi che me lo possano nascondere. Sono così tanti e soprattutto tante quelli che mi hanno amato, e sono certo che sarà un bel ritrovarci insieme, in un bel girotondo intorno a Dio. Non ho fretta, sia chiaro, penso d’aver ancora qualcosa da fare quaggiù. Ma quando sarà, sarà certo un bel giorno.