Se quella porta, già chiusa, si riapre


Qualcuno si ricorda di quel portone, pesante, importante, immenso, di Castel Gandolfo che si chiudeva alle spalle del piccolo, bianco, ingobbito Benedetto XVI la sera del 28 febbraio del 2013, dopo il breve volo sull’elicottero bianco che lo aveva portato dalla Città del Vaticano a quella che per otto anni era stata la sua residenza estiva e che ora lo avrebbe accolto, isolato, difeso dal mondo dal quale intendeva ritirarsi, forse fuggire, e che tante gravi amarezze gli aveva procurate?
Quell’immagine ci colpì tutti, ci commosse e procurò in ciascuno di noi un moto di grande simpatia e solidarietà umana, al di là di ogni visione di calcolo, di politica e di fede. Lo vedemmo tutti, allora, come un povero pulcino bagnato che cerca riparo dove sa che né pericoli né pioggia né grandine potranno più raggiungerlo. Vedremo quel portone chiudersi alle tue spalle, avevo titolato il mio pezzo su queste pagine, preparandomi già a vedere, a gustare il sapore amaro di quella scena che sapeva di mitico, di eroico.
Come certi animali che per morire hanno bisogno di rimanere soli, così quest’uomo, avendo fatto la scelta dell’abbandono, aveva voluto per sé questa visione altamente evocativa, drammatica e quasi epica dell’addio: come la porta della clausura che si chiude alle spalle della vergine che si consacra a Dio e che a lui solo dona la sua gioventù, il suo cuore, il suo corpo, la sua bellezza, e con quel gesto vuol far sua la frase del salmo: «Il Signore è la mia parte d’eredità e del mio calice» (Sal 16,5).
Colpì molto anche me, il mio immaginario, e mi commosse profondamente fino a procurarmi un nodo alla gola. La televisione, ancora una volta aveva svolto una funzione provvidenziale, rendendoci tutti parte viva e partecipe, commossa e solidale con quel piccolo mite e rassegnato calimero bianco che cercava nel silenzio e nel nascondimento quel lavacro purificatore e rigeneratore che potesse restituirgli quella serenità che il governo di una delle istituzioni più complesse e difficili del pianeta gli aveva tolta. “Perché sono piccolo e stanco” diceva quel calimero bianco, e soprattutto vecchio (struggente quell’ingravescente aetate) che commosse il mondo.

Entrando nella sua clausura, aveva promesso che non avrebbe cessato la sua opera di pastore, solo avrebbe cambiato il modo di esercitarla. Nel silenzio, nel nascondimento, nell’umiltà del non più apparire. Solo la sua voce avrebbe continuato a farci pervenire con i suoi scritti, i suoi poderosi e ponderosi testi teologici a cui avrebbe affidato il suo magistero, ora non più pontificale, ma solo magisteriale, dove magistero non sta più per quello solenne e ufficiale della Chiesa docente, ma quella del teologo, del sapiente, dello studioso, del docente universitario. Voce di Joseph Ratzinger, non più del pontefice romano Benedetto XVI, anche se il suo nome nella Chiesa sarebbe rimasto questo, perché semel papa, semper papa. Una volta che sei stato papa, rimarrai papa per sempre. Per la storia e per il diritto. Non accade così anche presso gli uomini, almeno in certi Paesi? Se sei stato presidente una volta il tuo titolo rimarrà per sempre il presidente. Anche se il tuo tempo è scaduto e il tuo mandato s’è estinto.
Così noi c’eravamo abitati a pensarlo ormai: un eremita contento di esserlo, geloso solo del suo non apparire e del suo silenzio, della sua preghiera e dei suoi studi prediletti, del suo pianoforte e del suo Mozart.
Ma da qualche tempo da quel monastero fra i giardini vaticani ha cominciato a filtrare verso l’esterno qualche segno di vita e forse d’insofferenza. Qualche colpetto di tosse, qualche schiarimento di voce, qualche bisbiglio discreto che divengono sempre più frequenti, sempre più articolati, sempre più complessi e impegnativi, espressi con voce sempre più forte e sicura. Sono risposte precise a domande sempre più impegnative, prese di posizione certamente discrete ma che mostrano una consapevolezza e una volontà d’esserci ancora, di avere ancora qualcosa da dire e da testimoniare, da spiegare e magari da precisare, forse da insegnare.
Per carità!… mai prendere la parola sui dibattiti in corso nella Chiesa, mai dare l’impressione che si vorrebbe suggerire qualcosa a chi dovrà – avendone, lui sì, la potestà di decidere e sentenziare–; mai a pretendere o a rivendicare il diritto di dire la propria sulle questioni disputate della Chiesa.
Ma, e qui sta l’inaspettata novità, perché dovrei tacere se mi si presentasse l’occasione, se ne venissi giusto richiesto, se dovessi capire che prendere la parola potrebbe anche portare giovamento alla Chiesa? Perché negare il proprio contributo, privando la Chiesa d’una ricchezza che infondo le appartiene ancora?
Interviste allora? Perché no?! Qualche intervento scritto? Che potrebbe fare di male, se mi viene richiesto, e se il buon Dio mi lascia la piena lucidità di pensiero e non vien mano in me la volontà di non sottrarmi alla mia parte di peso e di lavoro? Così forse pensò Benedetto XVI, prima di ricominciare a parlare.
Ebbene no, santo padre (dice che anche questo titolo ti sia ancora dovuto, o ti può essere attribuito), non era questo che tu avevi promesso, o almeno ci avevi lasciato intendere quando uscisti dal tuo appartamento al terzo piano del palazzo apostolico, e ti facesti chiudere alle spalle quell’immenso portone del palazzo papale, residenza estiva di vescovi di Roma.
Noi avevamo capito che tu, da lì in poi la tua vita l’avresti passata nell’oscurità (mediatica, s’intende) e nel silenzio, perinde ac cadaver, anticipando sulla terra la missione che sarà la tua in eterno nel cielo.
O c’eravamo sbagliati? Perché se così fosse, potrebbe essere un guaio, perché la tua voce non è una voce da poco. È la voce d’un papa, che anche se adesso non lo è più di fatto, lo rimarrà sempre per autorità morale, culturale e umana. In un momento come l’attuale, quando il dibattito interno della Chiesa mostra segni non dubbi di riacutizzarsi per tutto ciò che bolle in pentola (il prossimo sinodo sulla famiglia e il dibattito sulla priorità della misericordia anche in chiave sacramentale; comunione sì o no ai divorziati risposati, agli omosessuali dichiarati, ai conviventi di fatto?), tu capisci senz’altro quanto poco basterebbe a mettere in difficoltà papa Francesco che di questa linea della misericordia è l’anima e l’ispiratore.
Personalmente confido, anzi sono certo che mai e poi mai ti permetterai di dire qualcosa che possa procurare problemi a papa Bergoglio, ma i suoi avversari o denigratori non cercherebbero altro che di potersi giovare anche solo d’un tuo sospiro di dubbio (certo non sarà mai dissenso il tuo) per prendere coraggio. Gli atei devoti hanno già il loro sommo pontefice in Giuliano Ferrara e nel Foglio il loro Osservatore Romano. Lo sai bene la linea dei principi non negoziabili, che ha condizionato la politica dei cattolici italiani nel ventennio ruiniano-berlusconiano, ha già fatto abbastanza danni alla Chiesa e nessuno ne sente più il bisogno. Papa Francesco lo ha capito. Dagli una mano anche tu, Benedetto, restandotene nel tuo nobile ed eloquente silenzio dei primi mesi del tuo ritiro. La Chiesa intera te ne sarà grata.

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