Dunque papa Francesco è in Turchia. Su questo viaggio tutti sono concordi su un punto: è uno dei più delicati e difficili viaggi papali di questo primo mezzo secolo di papi globetrotter. La ragione di questa difficoltà è da cercare soprattutto nella figura, assai discussa e di ardua definizione del premier Erdogan, islamico convinto quanto a fede e islamista schierato a difesa delle prerogative e della tradizione dell’Islam.
Ma questo è un discorso che esula completamente dalle mie competenze e perciò me ne guarderò bene dall’addentrarmici. La mens islamica non si lascia facilmente inquadrare nella nostra mens cristiana, ponendosi essa come esattamente alternativa alla nostra. È questa secondo me la ragione delle difficoltà che rendono tanto laboriosi e spesso sterili tutti gli sforzi di dialogo fra islamici e cristiani, soprattutto cattolici.
Ma la visita del papa in Turchia è una occasione favorevole per prendere atto di queste difficoltà riscontrate dovunque nel mondo, dove i cristiani vengono a scontrarsi con le ali più estreme della fede e del pensiero islamico.
Dunque il papa è in Turchia, spintovi dal suo impulso a rendersi presente là dove una grave ragione ne reclama la presenza. Là dove si soffre, dove più grave è il pericolo, dove più si rende preziosa la sua vicinanza. È la stessa molla che lo portò a Lampedusa nella sua prima uscita dalle mura vaticane, chiamato dall’urlo delle vittime dei naufragi e dal dolore e dai disagi dei sopravvissuti a quei viaggi da incubo, a quelle traversate con i più piedi già quasi più vicini al fondo del mare che alla speranza.
Questa tendenza a spostarsi, a correre là dove più c’è bisogno di lui, dove si possono incontrare quelli che realmente possono fare qualcosa per migliorare la sorte di chi ha più ragione di soffrire: Terrasanta, Corea, Albania, Strasburgo, ovunque ci sono problemi da risolvere, soluzioni da trovare, pigrizie da stimolare, prudenze da sollecitare: sono questi i criteri delle sue scelte, gli stimoli a cui risponde papa Francesco che ha rinunciato da anni a ogni viaggio di piacere o di vacanza, ma si fa in quattro per correre dove c’è qualcuno che soffre e ha bisogno di lui.
I criteri delle sue scelte? Vicinanza e solidarietà a chi soffre, sollecitudine pastorale, annuncio del Vangelo, conoscere di persona ciò di cui si parla, e, come in questo caso, la ricerca di dialogo con tutti. Ma su tutto, e sempre, il desiderio e il bisogno del rendere ragione d’una fede che, se è in grave difficoltà nella vecchia (nonna l’ha chiamata) Europa, incontra invece promettenti primavere nelle parti più giovani, più fresche del mondo (Asia, Africa…).
Quest’ansia d’incontro e di dialogo lo ha oggi spinto in Turchia a portarvi il suo verbo di pace e di speranza, di condivisione e di solidarietà. Grandi le difficoltà nella preparazione del viaggio che ha rischiato più volte di fallire. Troppo ombrosa la sensibilità e la suscettibilità del personaggio, Erdogan, cucito a filo doppio a una visione intransigente dell’Islam, poco, o niente affatto incline al dialogo con le altre religioni nel mondo. Un rigore che incontra difficoltà e opposizioni già entro i confini della Turchia, specialmente fra i più giovani: in particolare, fra le giovani donne che rimpiangono il mito d’una Turchia laica e aperta alle istanze culturali dell’Occidente. Un passo indietro che rischia di rendere più difficile l’ammissione dello Stato turco all’Unione europea, pel timore che l’enclave di Costantinopoli possa dar occasione a una riedizione del cavallo di Troia, a parti invertite però, e restituendo attualità al proverbiale e romanesco “mamma li Turchi”, un grido che per secoli ha terrorizzato le coste mediterranee dell’Europa cristiana.
In queste condizioni diventa lecito chiedersi: riuscirà il nostro eroe (il papa) a ottenere ciò per cui ha voluto questo viaggio? Certo avrà agio di vedere e di trattenersi a lungo con il patriarca di Costantinopoli, che l’ha invitato e per il quale è venuto. Intanto gli è stato negato il viaggio ai confini con la Siria, là dove l’Isis sgozza e decapita ostaggi e semina morte nelle ultime comunità cristiane, yazide, shabak e turcomanne rimaste nel Paese, e anche fra i cristiani troppo frettolosamente convertiti all’Islam (come è già capitato a qualche ostaggio convertito) e dove il papa voleva dare testimonianza della propria vicinanza. Pretendevano perfino conoscere in anticipo i testi dei suoi discorsi, ma questo gli è stato negato. C’è da pensare che gli saranno impediti i bagni di folla e le celebrzioni di riti religiosi all’aperto, regola rispettata in tutti paesi musulmani.
È andato per dire “vogliamoci bene, siamo tutti figli dello stesso Padre”, ma Erdogan, come tutti gli islamisti intransigenti, sembra riconoscere solo un Dio che si chiama Allah. Quanto al Dio di Abramo e di Gesù Cristo, lo riconoscono solo se lo si traduce in Allah. Quanto al dialogo, lui vuole solo la conversione al Corano del Profeta. Diversa è la visione di papa Francesco, come del resto del Dalai Lama, per i quali il valore essenziale è il rispetto e l’amore reciproco, e lodare Dio con un cuore in pace con tutti.
Questo è ciò che anch’io penso e credo. Vorrei rendere una testimonianza: una ventina d’anni fa arrivò a Casalina il primo mussulmano. Non aveva un luogo per il culto. Mi chiese l’uso d’una ex chiesetta per celebrarvi la festa di fine Ramadam. Gliela concessi sembra esitazioni. Non ho mai avuto motivo di pentirmene. La cosa durò finché lui non lasciò Casalina. Mi piacerebbe che fosse ovunque così.
La difficile arte del dialogo… con i sordi
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