San Pietro sia con te, papa Francesco, e tu con noi


Oggi in Vaticano è festa grande. È il giorno di San Pietro. Faranno festa grande al primo papa di nome Francesco! Faremo festa anche noi. Ringrazieremo Dio per avercelo dato. E gli chiederemo di lasciarcelo ancora a lungo, perché ne abbiamo ancora bisogno. Tanto. Ed egli ha ancora molto da darci.
Poiché Francesco è ben lontano dall’aver esaurito il suo repertorio di mirabilia e ha ancora bisogna di tempo per mostrarci tutto il suo campionario di prodigi: ha solo bisogno di darsi una regolata, di limitarsi a qualche miracolo al giorno; chi ne fa troppi, come è già successo a Qualcuno più grande e potente di lui, ci sarà sempre qualcuno che lo ferma. Lunga vita dunque a Francesco, perché possa continuare a stupirci. Ne abbiamo tutti bisogno dopo esserci saziati di schifo e di vergogna davanti a tanta corruzione nel mondo e nella stessa Chiesa.

E ora vengo al tema proprio di questo articolo che ho lasciato apposta per questo giorno, per il giorno della festa del successore di Pietro; una festa che, malgrado il declassamento, rimane, specialmente a Roma e soprattutto in Vaticano, la festa dell’apostolo Pietro, il discepolo a cui Gesù ha detto: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa. A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16,19).
Parole, queste, che sono poi diventate una metafora del potere assoluto affidato da un potente al suo fiduciario. Qualcuno ricorderà senz’altro le parole del Pier della Vigna (o delle Vigne) dantesco: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi,/ serrando e disserrando… ».
Sono le stesse chiavi che uno ritrova in mano a San Pietro in moltissime delle sue immagini:o in trono (statua bronzea in San Pietro in Vaticano) o nell’atto stesso della consegna (Perugino, nella cappella Sistina) o nel giudizio universale (Michelangelo, idem) ecc.
Di queste chiavi i papi ne han fatto, nella storia, un uso sempre crescente fino a farne una specie di passe-partout capace di aprirgli ogni porta, di giustificarne ogni rivendicazione di potere: da qui il suo primato su tutta la Chiesa, su ogni vescovo, su ogni conferenza episcopale, su ogni concilio o sinodo che sia; di qui, anche, la sua infallibilità nel dogma e la certezza d’un’assistenza particolare sulla sua attività di legislazione.
Forte di questa fede nell’assistenza divina, l’uso che ne è stato fatto, ha potuto essere in qualche momento anche abbastanza spregiudicato: basti citare qui il Dictatus papae di Gregorio VII, del quale ho parlato diffusamente nell’articolo E il sole calò (finalmente) sul Medioevo della Chiesa (29.11. 2013).
Di questi diversi usi mi occuperò qui di uno solo, sperando di farlo in modo non banale.
È dell’infallibilità in actu exercito che vorrei qui parlare. Non parlerò dunque di un dogma, se quell’autorità esiste o non esiste. La verità dogmatica di questa autorità la do qui per scontata. Per parlare di questo ci sono i teologi, e anche per loro non sarà male tener presente che la maggior parte del tempo che le dedicheranno sarà tempo perso, perché ciò che c’era da capire lo si poteva capire già da molto tempo, già dai tempi di Wiclif e di Huss, di Lutero e di Giordano Bruno, dell’Inquisizione e del Sillabo: biglie nere e biglie bianche nel vaso a contendersi la maggioranza, finché lo zucchetto bianco di Pio IX non vi fu posto sopra a coprirle tutte rendendole tutte bianche, perché dicessero sì all’infallibilità. Storico o leggendario che sia, questo aneddoto la dice lunga sul diritto d’ultima parola che viene riconosciuto al suo titolare solo da quando (1870) un papa, vincendo ogni resistenza (e ce ne furono molte nella storia) proclamò il divino fondamento di quella prerogativa.
Perché questo discorso? Perché vorrei tirare alcune conseguenze in proposito, proprio a partire dalle azioni e dalle parole di papa Francesco.
È un fatto incontestabile che egli faccia e dica (qualcuno pensa che finora abbia più detto che fatto, ma io credo che bisogna pur dargli tempo di imparare a fare il papa) cose che nessuno dei suoi predecessori ha mai fatto e mai detto, almeno fin dove arriva la memoria storica, detta o scritta che sia.
Ha detto per esempio: «Chi sono io per giudicare gay o divorziati?». Mai nessuno dei suoi predecessori aveva parlato così. Allora mi chiedo: è lui che non sa parlare da papa, o sono stati i papi prima di lui, che hanno sbagliato quando (tanto per fare un esempio) hanno pontificato per decenni sui “principi non negoziabili”?
È lui che sbaglia quando si definisce un uomo povero e peccatore come tutti gli altri, o si sbagliava chi, sulla scia di Paolo VI, parlava della Chiesa e dei suoi pastori come di grandi “esperti in umanità”? Certo gli altri non avevano ancora dovuto misurarsi con la tragedia della pedofilia di massa dei suoi preti, compresi alcuni vescovi e cardinali e nunzi apostolici. D’accordo, dire di massa è un’iperbole, ma insomma ci si è andati vicini.
È Francesco che sbaglia quando dice che la comunione è per tutti, o si sono sbagliati tutti i suoi predecessori che hanno negato la comunione ai gay, ai cristiani divorziati e risposati e alle coppie di fatto? In particolare: mi sono sbagliato io che in tutti questi anni, per obbedienza (anche se con molto rammarico), ho negato la comunione a questi miei fratelli, specialmente al carissimo Marcello, o hanno fatto bene tutti quelli che, preti come me, durante tutti questi anni, non si sono neppure posti il problema e hanno continuato a darla a tutti, risparmiandosi amarezze, inimicizie e piccoli scismi in parrocchia?
E perché continuare (aggiungo io) a mettere in croce i preti per i vari certificati di idoneità a padrini e madrine (che tanto non servono a niente, né i certificati né i certificandi) se papa Francesco ha detto che il battesimo non si nega neppure a un marziano che ce lo chiedesse?
Credo che tutti abbiano ormai capito cosa voglio dire. È tutto il nostro essere e dirci cristiani che va ripensato. Anche un cieco vedrebbe che qualcosa non torna più, perché se ha ragione papa Francesco, come io credo che sia, vuol dire che prima di lui qualcuno ha sbagliato. Magari mi ci metto anch’io fra quelli che avevano imparato a dire che cristiani veri sono solo i buoni cristiani, perché così c’era sempre stato detto e avevamo tutti finito col crederlo. Ora Francesco ci dice che siamo tutti peccatori, che tutti abbiamo bisogno di misericordia, e che la misericordia viene prima e dopo ogni giudizio. Prima per impedire la deriva del peccato, dopo per chiamare alla conversione e alla penitenza.
Finché un giorno, dalle montagne del Mugello un vero profeta ci lanciò la sua sfida: L’obbedienza non è più una virtù. No, non lo è più, e ora ne abbiamo la prova provata nello stesso papa Francesco, nella sua parola e nel suo esempio. Come allora ci fu di esempio proprio don Milani, che al suo vescovo obbedì quando si trattò di accettare di andare al confino sul Mugello, ma che disobbedì profeticamente quando gli si voleva imporre il silenzio. O non sono più vere le parole di Geremia profeta: «Prima di formarti nel grembo materno io ti conoscevo… Oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni, per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare (Ger 1, 5.10).
Non è comodo fare il profeta. Ma può essere un dovere. Molto più: una missione.