Venerdì mattina, 4 ottobre 2013, nella basilica inferiore di San Francesco in Assisi. Stavamo tutti aspettando papa Francesco che arrivasse da Roma con l’elicottero, per dare inizio alla sua prima visita da papa alla città del suo grande omonimo, quel Francesco d’Assisi dal quale aveva “osato” mutuare il nome da papa, quel nome di cui nessuno aveva osato ancora rivestirsi.
Passeggiavo pregando, con una preghiera senza parole, tutta di cuore e di testa, pensando a un milione di cose di cui non saprei più dirne una sola: quegli stati di grazia in cui ogni parola è di troppo e niente allo stesso tempo: come dare espressione adeguata all’inesprimibile? Chi mi ha seguito negli ultimi sei mesi, sa quanto Francesco sia riuscito a catalizzare la mia attenzione e i miei sentimenti sulle cose che fa e su quello che dice.
Improvvisamente vedo venirmi incontro sorridente il mio arcivescovo, l’ottimo mons. Gualtiero Bassetti, che mi veniva incontro sorridente. Un festoso abbraccio, lo scambio del bacio sulle guance. Con il sorriso più amabile del mondo il mite pastore saluta l’irrequieta pecorella così: «Buongiorno don Antonio, sono contento di vederti; che effetto ti fa sentirti scavalcato ogni giorno a sinistra da questo papa?».
La mia risposta fu breve: «Magnifico, Eccellenza: era una vita che l’aspettavo!». Sottinteso: era ora!
Avrei voluto aggiungere, ma non ne ebbi il tempo: “E poi mi creda: ogni volta che lui fa una svolta a sinistra, io sono lì che l’aspetto da almeno quarant’anni».
E sì! Era davvero un’intera vita che l’aspettavo. Ero sicuro da sempre che un giorno un papa, prima o poi, ci sarebbe arrivato anche lui. Solo che non sapevo né l’anno né il giorno né l’ora. Ed ora ecco che quell’anno, quel giorno e quell’ora erano finalmente arrivati… e a tempo mio!
Perché non avevo mai avuto dubbi sul fatto che ci sarebbero un giorno arrivati anche loro, le gerarchie, le diocesi, i papi, i vescovi, i preti. Solo non sapevo se io ci sarei più stato a salutare quel giorno e quell’ora, quando fossero giunti.
Ed ecco che invece ci sono, grazie a un trapianto di fegato felicemente eseguito nove anni fa, a Palermo.
Sembravo proprio finito, ma la scienza degli uomini ha fatto il miracolo facendo da sponda al Biliardista divino. Già, perché oggi la scienza ha anche questo di bello, che risparmia al buon Dio di fare tanti miracoli. E Dio ci lascia ben operare, per niente geloso del nostro successo, anzi orgoglioso dei progressi compiuti dalla sua creatura che con impertinente impudenza va a mettere il naso e il dito e tutt’e due le mani sul mistero e sui segreti della vita, aprendo intere camere e armadi e scrigni e casseforti che sembravano un tempo inviolabili e oggi s’aprono a una a una, come altrettante matrioscheche sembrano fatte proprio tutte allo scopo di stuzzicarti la curiosità di vedere cosa c’è dentro ciascuna di loro e fin dove arriverà quel gioco meraviglioso di fantasia e di bravura.
E davvero il gioco è affascinante perché mentre i nostri telescopi, grandi ormai come crateri di vulcani, ci permettono di ritornare indietro di milioni di anni nella storia del macrocosmo e dell’universo, i nostri microscopi ci permettono di scendere nei segreti del microcosmo fino all’infinitamente piccolo e ormai quasi all’immateriale, in una sfida appassionate e terribile all’ok corralfra l’uomo e Dio, quasi che dallo scontro fra i due uno solo possa rimanere vincitore e vivo come Realtà, come Valore, come Norma normante e come Legge legiferante.
Davvero ne ha valso la pena, oggi mi dico, di percorrere tutto quell’orribile Tunnel di cui parlo nel libro in cui racconto quella storia e quell’avventura. In realtà quella sofferenza fu niente in confronto con il deserto che avevo già attraversato negli ultimi due anni della mia malattia, quando era sembrato che tutto fosse lì lì per essere perduto per sempre: vigore, bellezza, fantasia, la stessa voglia di vivere e soprattutto la testa! la testa!! la testa!!!
Morire? Non sarebbe stato il più terribile dei mali possibili. Che volete che fosse morire, rispetto alla possibilità di smarrire l’uso della ragione, della testa, di quella regione del cervello che è sede della divina fantasia?
Non che sopravvivere fosse facile. Devo anzi dire, con Amleto, che non avrei saputo dire, cosa fosse meglio, se «essere, o non essere… e se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna… o morire, dormire e nient’altro, e con il sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne… Morire, dormire…».
Così allora ero tentato di pensare, ma devo dire che mi sarebbe pesato morire senza sapere come sarebbe andato a finire quel film di cui ero parte, sia pure come semplice comparsa, ma del quale anch’io, come avviene per tutte le comparse dei film, conoscevo solo quelle poche scene nelle quali era prevista la mia presenza, le poche mosse che dovevo fare, le poche parole che dovevo dire. Tutto il resto non era affar mio, non mi riguardava. Al più mi sarei potuto rivedere nel film, finalmente montato e distribuito nelle sale o in tv. Sempre che le scene cui avevo contribuito non fossero state scartate in sede di montaggio.
Non che questa misera parte da comparsa mi sia molto piaciuta, ma era l’unica che mi era stata offerta, e almeno avrei voluto sapere se avevo vinto o se avevo perso e perché e per chi avevo combattuto.
Ricordo bene l’amarezza che spesso mi sorprendeva quando il barometro del mondo e della Chiesa sembrava volgere al peggio e so ben io quante volte (tante!) mi sono sorpreso a pensare che era una ben triste sorte la mia di dover morire con l’amarezza d’essere stato uno “degli ultimi cristiani”, di quelli che vedono trasformare le chiese in sale da concerto, o abbatterle per ricavarne pietre per farne altri edifici, o trasformare gloriose abbazie in ristoranti e alberghi a 5 o 7 stelle. Era già successo ai templi pagani dell’antica Grecia e di Roma imperiale, e ai templi della Mesopotamia, del Messico azteco e del Perù degli Inca. Non avrei voluto vedere la cupola e la basilica di san Pietro far la fine di Santa Sofia di Costantinopoli. Non mi sarebbe piaciuto, ma le parole di Qoelet non mi tranquillizzavano: «C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire», che valgono anche all’incontrario. E se io fossi nato proprio nel “tempo per demolire” ciò che altri avevano costruito?
In questi pensieri non proprio allegri mi rigiravo in questi ultimi anni della mia povera vita, chiedendomi se non fossero questi i tempi in cui Ipazia sarebbe stata vendicata per il suo martirio. Fu quando la disperazione aveva condotto il vecchio Benedetto XVI alla fatale rinuncia e tutto sembrò sprofondare nel niente. Da dove potrà spuntare un nuovo sole, ci siamo chiesto tutti.
Ed ecco che proprio “da quasi la fine del mondo” è scoccata la scintilla che nel breve volgere di pochissimi mesi sembra aver incendiata l’immensa prateria di aride stoppie, che subito ha risposto all’invito del fuoco dando luogo a un incendio che continua a dilagare e ad espandersi. La paura delle tenebre s’è dileguata, l’alba d’un nuovo giorno sembra spuntare. C’è ancora tempo per sperare. E se la speranza risorge, tutta la vita risorge. Tutto l’uomo risorge. E io sono ancora qui, a vedere e a cantare il mio peana.
Pensieri in libertà su papa Francesco ad Assisi
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