Cercare Dio a Tahrir o in un’enciclica?


Stamattina mi sono svegliato col desiderio d’incontrare Dio. Lo volevo vedere, sentire, anzi meglio, me lo volevo sentire vicino, per non sentirmi solo in un mondo nel quale mi sento sempre più al margine, sempre meno coinvolto. Sempre più straniero.
Ho bussato dapprima alla porta della mia Chiesa, quella che ha Roma come suo centro e tutto il mondo come suo campo di grano e vigna da coltivare e ovile del suo gregge.
Mi sono state date due risposte: una proprio da Roma, l’altra da un altro mondo, dal Cairo; sensazional-routinaria la prima, assolutamente drammatica la seconda. Alla fine mi è parsa più promettente la seconda che la prima. Anche se si giocava fuori casa.
La prima risposta dunque mi è venuta da Roma: un nuovo testo del Magistero cattolico, un’ enciclica, quanto di più solenne ci si possa aspettare dal magistero ordinario della Chiesa cattolica.
Si tratta niente di meno che della prima enciclica del nuovo vescovo di Roma Francesco. Lumen Fidei il suo titolo. Lettera enciclica “a quattro mai” come tutti hanno tenuto a sottolineare. Quattro mani per modo di dire: il vero lavoro è stato quasi tutto a due mani, quelle di Benedetto XVI. In quelle pagine c’è tutto il suo pensiero e il suo mondo. Un solo esempio: la provvidenzialità dell’incontro fra Cristo e il pensiero greco (ricordate il discorso di Regensburg?). Papa Bergoglio l’ha solo fatto proprio, gli ha apportato qualche aggiustamento, e l’ha firmato. Certo ha contribuito a dare al testo del grande teologo tedesco un afflato pastorale più affine alla sua formazione di gesuita e di pastore. Ma dev’essere chiaro, che avendola lui firmata, il documento passerà alla storia come suo. Il poco tempo a disposizione mi ha permesso di percorrerla solo molto velocemente. La mia sarà pertanto solo una prima impressione, tanto per avviare una riflessione.
Chi conosce qualcosa di questi solenni documenti papali sa che essi sono centrati su un tema, intorno al quale ruotano altri temi minori, per scrivere i quali i papi sono soliti giovarsi degli aiuti degli sherpa di turno, teologi, filosofi, sociologi o altri particolarmente versati nelle diverse discipline. Essi, sulla base delle indicazioni ricevute dal papa lavorano alla raccolta del materiale e talvolta a una prima stesura, ciascuno per la sua parte di competenza. Il tutto verrà messo in mano al papa che rivedrà, correggerà, cancellerà, aggiungerà e uniformerà il tutto nel tono e nello stile.
Qui le cose sono andate altrimenti: pensata e voluta e in parte già scritta dal papa Benedetto XVI in vista della conclusione dell’Anno della Fede, essa è stata ora pubblicata come prima enciclica di Francesco, nuovo vescovo di Roma. Difficile dire chi ammirare di più, in questa occasione: se chi ha accettato di dare autorità pontificale allo scritto di uno che papa non era più, o se l’umiltà di chi ha accettato di cedere al suo successore la paternità di una sua opera, una specie di canto del cigno del suo pontificato.
In ogni caso un gesto di tale grandezza d’animo e d’umiltà reciproca che farà di questo momento storico uno dei grandi paradigmi di come dovrebbero essere sempre i rapporti fra i veri pastori della Chiesa. Quanto a me, potrò dire che dopo aver assistito personalmente al Concilio, sono stato anche testimone dell’unica vera staffetta nella storia della Chiesa. E di questo ti ringrazio, Signore.
E ora qualcosa sull’enciclica? Credo che qualcuno se lo aspetti, e non vorrò sottrarmi. Dirò semplicemente che è solo un’enciclica. Come tutte. Con i pregi e i difetti di tutte, perché propri del genere letterario.
È evidente che mai mi sognerei di dire che ciò che in essa è scritto è improprio o peggio ancora inesatto. Dico solo che a me pare quasi tutto superfluo. Tutto già risaputo. È quasi sempre così. Quasi mai si troverà in esse qualcosa di talmente nuovo da segnare una svolta, un’epoca della Chiesa. Quelle poche vengono infatti ricordate per decenni e si meritano spesso celebrazioni per i loro diversi giubilei: la Rerum Novarum (Leone XIII), la Pacem in terris (Giovanni XXIII), Populorum progressio (Paolo VI); Redemptor hominis (Giovanni Paolo II). Non sono le sole, ma non sono molte. È il genere letterario che non appare più adeguato. Ogni papa, coadiuvato in questo dai teologi sherpa, si sentono sempre obbligati, come studenti sotto esami, a dimostrare che conoscono tutto della materia che trattano e dall’inizio alla fine si propongono di ripercorrere tutti i singoli passaggi della dottrina corrente. Ciò ingenera stanchezza nel lettore, che spesso ne esce esausto o, più spesso ancora, lascia via il tutto prima di finirne la lettura .
Questo peccato, certamente veniale, mi pare percorra anche queste pagine della Lumen Fidei. Zeppo, come si conviene al genere letterario, di citazioni bibliche patristiche liturgiche che ne appesantiscono di molto la lettura. Non certo per i teologi, esegeti, liturgisti, pastoralisti di professione (che poi sarebbero proprio quelli per i quali quelle citazioni risultano del tutto superflue perché saprebbero andarsele a cercare da soli, ma che poi ti condannerebbero perché non gliele hai elencate una per una), ma proprio per i volenterosi lettori che su quelle pagine vorrebbero fare lettura spirituale.
Accade così che le buone idee restano sommerse sotto una valanga di citazioni che tutti sanno a memoria e, se anche è sempre vero che repetita iuvant, resta anche vero che alla lunga le ripetizoioni stancano.
E poi è chiaro a tutti che, malgrado la firma dica il contrario, tutti non solo sanno, non solo capiscono, ma soprattutto tutti sentono, che quella non è farina del sacco di Francesco… e non so quanto questo aiuti.
Francesco infatti ci ha abituati a gesti semplici, intuitivi, univoci, su cui non si può né discutere né equivocare: sono i gesti semplici e univoci di Gesù, di Francesco d’Assisi, di Teresa di Calcutta: gli unici gesti e le uniche parole di cui oggi il mondo ha veramente bisogno. Per poter continuare a sperare. Per poter continuare a vivere.
La seconda risposta mi è venuta da Il Cairo e dai moti di Piazza Tahrir: centinaia di migliaia in piazza e per le strade, famiglie intere donne uomini bambini, vecchi, tutti insieme tutti uniti a rivendicare rispetto e fedeltà agli ideali della Primavera araba, tradita dalla dittatura islamica: slogan del tipo meglio la dittatura dell’esercito che dell’Islam, se in bocca a seguaci del Profeta, sanno di tragedia. Vengono in mente le parole di un altro grande Profeta, Isaia: «Il suo ruggito è come quello di una leonessa/ ruggisce come un leoncello; / freme e afferra la preda,/ la pone al sicuro, nessuno gliela strappa» (Is 5:29).
Belli i versi del Carducci dalla spianata del Canto dell’Amore, mentre il popolo di Perugia abbatteva l’odiata Rocca Paolina: «Ma il popol è, ben lo sapete un cane/ che i sassi addenta che non può scagliare». Solo che oggi quel cane non esercita più le sue ferre zanne contro le fortezze che non ci sono più, ma nelle piazze e per le strade delle città degli uomini.
Belli sono quegli uomini, quelle donne, quei bambini, quei vecchi profeti d’un tempo che si spera migliore! Allah vi benedica, Allah vi dia la vittoria! Questo invoca per voi un fratello cristiano. Anche se so, che se fossi al Cairo, forse non sarei a Tahrir.