Abbiamo lasciato Maria, fanciulla, al risveglio d’un sogno che la lascia, smarrita, a carezzarsi il grembo, dove “lievita”, inattesa, una nuova vita. “Femmina un giorno e poi madre per sempre”, sembra confortarla, o compatirla, Fabrizio De André, decisamente schierato dalla sua parte contro un Dio (o un “chi per lui”) invadente e indifferente, che prima la coinvolge in un’estasi che cambierà la sua vita e poi l’abbandona a sé stessa, come fanno tutti quelli che della donna bramano solo un sì per l’attimo fuggente, non importa di che natura, e appena l’hanno avuto si girano dall’altra parte e scompaiono sulle ali di quello stesso vento sul quale sono venuti.
Già, perché secondo De André, che fonda il suo racconto sui vangeli apocrifi, quel figlio, che non è di Giuseppe, tanto meno può esserlo di un Dio che non esiste, ma di cui fa comodo agli uomini che ce ne sia l’idea, forse il fantasma, sul quale scaricare tutte le fragilità, le debolezze, ma anche, e soprattutto, tutti i misfatti, le iniquità, le porcherie, le vergogne di cui l’uomo è capace. Sai cosa vuol dire poter scaricare su qualcun altro le proprie colpe: “l’ho fatto solo perché Dio me l’ha imposto”. È proprio da qui che è partita la caccia a Dio, la caccia all’ultimo altare, all’ultima icona in circolazione: sbarazziamoci di questo feticcio di Dio!
In questo canto della Buona Novella ritroviamo infatti Maria, già madre d’un figlio ormai impegnato nella sua missione di profeta, che le procura già ansietà e oscuri presagi, da cui lei cercherà di fuggire rifiutandosi di leggere i segni premonitori, interpretandoli nel senso a lei più favorevole.
Maria nella bottega di un falegname
Maria
Falegname col martello / perché fai den den ?
Con la pialla su quel legno / perché fai fren fren?
Costruisci le stampelle / per chi in guerra andò ?
Dalla Nubia sulle mani / a casa ritornò ?
Il falegname
Mio martello non colpisce
pialla mia non taglia
per foggiare gambe nuove
a chi le offrì in battaglia
ma tre croci, due per chi
disertò per rubare,
la più grande per chi guerra
insegnò a disertare
La gente
Alle tempie addormentate / di questa città
pulsa il cuore di un martello / quando smetterà ?
Falegname, su quel legno / quanti colpi ormai,
quanto ancora con la pialla / lo assottiglierai ?
Maria
Alle piaghe, alle ferite che sul legno fai,
falegname, su quei tagli manca il sangue ormai,
perché spieghino da soli, con le loro voci,
quali volti sbiancheranno sopra le tue croci
Il falegname
Questi ceppi che han portato perché il mio sudore
li trasformi nell’immagine di tre dolori
vedran lacrime di Dimaco* e di Tito** al ciglio
il più grande che tu guardi abbraccerà tuo figlio
La gente
Dalla strada alla montagna sale il tuo den den
ogni valle di Giordania impara il tuo fren fren,
qualche gruppo di dolore muove il passo inquieto,
altri aspettan di far bere a quelle seti aceto
Così, colpita e disturbata anche lei dagli insistenti colpi di martello e dal rumore di pialla che continua a uscire da una bottega di falegname, essa va a informarsi cosa sia tutto quel darsi da fare su quei pezzi di legno. Non lo chiede a suo marito che è già morto da un pezzo, ma al falegname stesso che lo lavora. Certo sarà per un nobile scopo, immagina lei, magari per ridare una gamba a chi l’ha persa in battaglia… O forse è solo per esorcizzare un sospetto, una paura, forse un presagio: “Falegname, cos’è tutto questo lavoro? Per qualcosa di utile, nevvero? Non è che starai preparando supplizi… perché, vedi, vedendo come tu tratti quel legno, mi par quasi che manchi poco perché ne sgorghi sangue…”…e io ho mio figlio, pensa intanto fra sé, che ha scelto di fare il profeta… e i profeti fanno spesso una finaccia…”.
Il falegname va giù duro: «Proprio così donna: io sto giusto preparando tre croci: per questo m’han portato del legno. E se vuoi sapere per chi sono… ebbene due sono per due ladri, come è giusto che sia; ma la terza, la più grande, proprio quella che tu guardi, «abbraccerà tuo figlio», sì, il profeta.
Ormai il dramma è chiaramente definito. Ma c’è una terza figura in scena, La gente, una specie di Coro della tragedia greca, che interviene in due riprese a commentare il duetto fra Maria e il falegname: “adesso basta; la gente è stanca di sentire suoni che annunciano solo strazi e morti”; e nel secondo intervento ammonisce: “il mondo si dividerà d’ora in poi in due parti: quella che farà suo il dolore del crocifisso e di tutti i crocifissi del mondo; e quella che non aspetta altro che di poter fare la propria parte per rendere più dolorosa la pena del condannato, dando solo aceto alla sua sete. È la profezia del segno di contraddizione” secondo Simeone (Lc 2,34).
Fin qui De André si mantiene su un piano di neutralità. Egli si limita a prendere atto che davanti all’uomo Gesù di Nazaret non si può non prendere posizione: o si è con lui o contro di lui (cfr Lc 11,23).
Ma attenzione: questo è vero finché si parla di Gesù di Nazaret, ma non è più vero quando si parla del Dio di Gesù di Nazaret, almeno di quel Dio di Gesù di Nazaret che ci è stato tramandato dalla tradizione cristiana, in particolare dalla Chiesa cattolica e romana. Perché allora il discorso cambia.
Tre Madri
Madre di Tito:
“Tito, non sei figlio di Dio,
ma c’è chi muore nel dirti addio”.
Madre di Dimaco:
“Dimaco, ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre”.
Le due madri:
“Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l’immagine d’un’agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno:
lascia noi piangere, un po’ più forte,
chi non risorgerà più dalla morte”.
Madre di Gesù:
“Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama – Nostro Signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di Paradiso.
Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio
t’avrei ancora per figlio mio”.
Perché qui si potrà davvero rasentare la “bestemmia”, e nel poemetto di De André a rasentarla saranno proprio le donne, le madri dei tre crocifissi, le quali, facendosi voce della povertà delle creature, non esitano a rinfacciare a Dio il suo esser di troppo nella vicenda umana: di troppo, perché troppo lontano, nell’assoluta perfezione della sua divinità, dalla nostra imperfetta condizione umana. Quasi un dirgli in faccia: perché non te ne sei rimasto dove eri, nel tuo cielo? Se tu non fossi venuto a mettere il dito nelle nostre cose, oggi noi non staremmo qui a piangere i nostri figli. Un rimprovero che ha una sfumature diverse e importanti nel rimprovero delle madri dei due ladroni e in quello di Maria.
Intanto il vero termine di scontro non è tanto fra le singole creature e Dio, quanto nel differente rapportarsi delle une e delle altre creature e lo stesso Dio. Nel nostro caso ci sono tre madri, di cui due alleate contro la terza. E mentre esse rivendicano il diritto di piangere sulla morte dei loro figli, lo stesso diritto lo negano alla terza.
La madre di Tito, il buon ladrone: “Tito, anche se tu non sei come Gesù, figlio di Dio, tu non sei solo: c’è tua madre che muore con te. Non sarai santo, ma sei mio figlio: questo mi basta”.
La madre di Dimaco, il ladrone cattivo, è più brutale: “Dimaco, non solo tu non sei figlio di Dio, ma non sai neppure chi è tuo padre, perché neppure io lo so: va a sapere di quanti dei miei clienti potresti essere figlio. Ma sappi che, nel vederti morire così, tua madre muore come e più di te”.
È qui che sembra esplodere il rancore profondo (che nasce certo dalla gelosia) delle due madri contro la madre del terzo crocifisso: “Maria, non ti pare che stai esagerando nel recitare la tua parte di madre del crocifisso? In fondo, che diritto hai tu di piangere? Tu sai infatti che il tuo figlio ti sarà ridato fra tre giorni. A noi no, nessuno ci ridarà i nostri figli! E poi, tu hai la consolazione di sapere che lui torna alla casa di suo Padre: noi no! perché sapendo come sono vissuti, possiamo prevedere per loro solo l’inferno. Allora, per favore, niente scene: lasciaci piangere i nostri figli ben più forte di te il tuo, perché noi li perdiamo davvero!”.
Ecco questa sarebbe davvero una bestemmia, l’urlo della creatura ferita che non si sente più rassicurata dalla sua fede in un Dio che non ha saputo garantirle della perdita dei loro figli come invece l’ha garantito a quella lì! Che materialmente sia una bestemmia non c’è dubbio, ma resta inevasa una domanda: è la bestemmia del ragionatore consapevole e tronfio del salmo 13,1, «stolto dice in cuor suo: non esiste Dio»; o è la “bestemmia di Giobbe” che maledice il giorno in cui nacque (Gb 3,2); o quella di Geremia che maledice l’uomo che annunciò a suo padre che gli era nato un maschio (Ger 20,15)? Sì perché c’è bestemmia e bestemmia: c’è la bestemmia che è volontà di annientare il bestemmiato, e la bestemmia che è il disperato tentativo di riconquistare il cuore di chi ha tradito la nostra fiducia? E questo ben lo sa chiunque abbia amato anche una sola volta nella sua vita.
E finalmente parla anche Maria: un accorato lamento, il suo, sul figlio ormai spento, di cui sta forse stringendo la testa al proprio seno – su quello stesso seno che egli aveva succhiato da bambino – nella suprema straziante immagine della Pietà. La voce di Maria la si indovina bassa, profonda, consapevole, lenta: non esce dalla disperazione, viene da un cuore che si nutre di pensiero:
«Non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio». Che potremmo tradurre anche così: “se Dio non m’avesse chiesto d’essere tua madre, ora avrei forse un figlio ancora vivo, ancora mio… sì, soprattutto, veramente tutto mio”! Perché, a pensarci bene, questo mio figlio non è mai stato tutto mio. Vi ricordate, a Gerusalemme? Aveva solo 12 anni: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose del Padre mio?». Di uno che vi parla così, come potete dire che è “proprio figlio a te?”.