Confesso la mia difficoltà a sintonizzarmi sulla lunghezza d’onda sulla quale trasmette i suoi messaggi il magistero ecclesiastico di questi ultimi tempi. Non lo si prenda come un accusa ma, se si vuole, come un segno di autocoscienza di un mio limite. Posso essere io che non capisco, o che mi situo su un altro canale o un’altra frequenza.
La difficoltà sta nella non univocità, anzi nell’aperta ambiguità del concetto di natura: un concetto neutro, che ognuno può usare, e di fatto usa, a modo suo. Un concetto con il quale tutti si trovano perfettamente a loro agio, perché nella sua flessibilità, esso si presta ai più diversi usi. Che il pensiero cristiano abbia attinto dal pensiero classico (grecoromano), e in particolare da Cicerone, la sua concezione della natura come essenza dalla quale derivano, per il principio di conformità, le regole del buon agire umano, sembra abbastanza acquisito: «È da Cicerone che i filosofi cristiani, i giuristi cristiani prenderanno (più che da altri autori); è soprattutto [a partire] da Cicerone che si farà questa specie d’adattamento del diritto naturale al cristianesimo, in particolare con San Tommaso»: un Cicerone che del resto era stato lui stesso il grande testimone e sistematizzatore d’una tradizione già antica (stoica, platonica, aristotelica). Così Gilles Deleuze.
Questo concetto di natura come principio del ‘buon’ diritto in quanto norma del corretto vivere civile, ha attraversato la storia del pensiero europeo da Agostino a Spinoza fino a J.J.Rousseau, calvinista per famiglia, illuminista quanto al pensiero filosofico e massimo profeta della natura ‘naturalmente’ buona e maestra di bontà. Con lui il concetto di ‘natura buona’, ispiratrice di modelli di civiltà e di diritto, raggiunge la sua massima ‘canonizzazione’, ma dopo di lui entra in un lungo tunnel da cui non è più uscita. La rivoluzione darwiniana, con la sua affermazione di un’evoluzione fondata sulla lotta per la sopravvivenza dell’individuo e delle attraverso il crudele e cieco meccanismo della selezione naturale, ne ha affrettato la decadenza.
Un altro duro colpo all’idea della legge naturale è venuto dalle ricerche di antropologi ed etnologi. Oggi si sa, grazie ai loro studi, che non c’è uniformità né accordo nelle diverse civiltà circa i massimi temi dell’etica e della morale. Non c’è un solo comandamento del decalogo che non sia ignorato e anzi contraddetto dagli usi e dalle leggi delle diverse culture. La storia delle religioni ha conosciuto di tutto: dai sacrifici umani alla prostituzione sacra, dalla pena capitale (tuttora in uso in un’ampia parte del mondo anche civile) alla schiavitù (altrettanto ancora presente sotto mentite spoglie in larghe aree del pianeta), dal colonialismo alla guerra, dalla più esuberante e giuliva poligamia (da Salomone ai sultani di Istanbul e agli imperatori di Cina, si parla per ognuno di migliaia di donne nei loro ginecei) alla più rigida monogamia ma anche alla poliandria. Paradossalmente tutti si rifanno a un diritto sulle spalle del quale appoggiare le loro richieste: il diritto della forza, della religione, della tradizione, dello stesso diritto ‘naturale’. Anche la proprietà privata rientra nel novero, e con essa il diritto di possedere imperi privati mentre a milioni gli uomini muoiono di fame, di sete o di malattie che si potrebbero curare con pochi dollari: quei pochi dollari che quei poveri non hanno mai visto volare.
Cos’è dunque questo diritto naturale quando si tratta di tanti aspetti della vita umana nelle sue molte espressioni storiche e culturali nelle varie parti del pianeta? Ciò che in molte parti d’Europa è ancora scandalo, ma solo scandalo e niente più (per esempio la nudità integrale in pubblico), in altre parti del mondo può essere punito con la prigione e perfino con la lapidazione, ma in altre ancora può essere a tutt’oggi perfettamente omologato e legittimo (Africa, Mato Grosso, isole del Pacifico). Lo stesso si dica in materia di sesso: poche altre cose presentano una più grande diversità di giudizio, dal rigore estremo alla più benevola tolleranza.
Ma noi abbiamo la Bibbia, mi diceva un prete proprio in questi giorni, il progetto divino espresso in quel «maschio e femmina li creò», «a immagine di Dio» per di più (Gen 1,27): non ci dovrebbe mai esser lecito dimenticarlo. Nessuno di noi lo dimentica, ma c’è anche chi ricorda che quando si parla di Bibbia non è più di filosofia né di scienza che si parla, ma di fede e di rivelazione. Parlando di rivelazione e di fede non siamo più nell’ambito della natura, ma questa viene trascesa, superata. Siamo nell’ordine della fede e come tale si riferisce solo a chi quella fede l’accetta e la fa sua. Nessuno la può imporre.
Torniamo così al diverso atteggiamento di chi invita alla tolleranza, alla misericordia: i Martini, i Tettamanzi, uomini di scienza e di sapienza cristiana, di fede e di passione apostolica (una volta si diceva ‘zelo’): la fede va proclamata, va proposta, va testimoniata; mai imposta. È un discorso oggi perdente ma che è importante fare: a testimonianza per il futuro. Per quando forse le certezze di oggi potranno essere viste come «piaghe» domani. È già successo a Rosmini.
Di diritto naturale si può anche morire
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