L’uno-due di papa Francesco


“All’anima don Pié, che padellata”, disse il chierichetto all’Aldo Fabrizi prete che scendeva le scale dopo aver steso un vecchietto allettato che non voleva saperne di far la parte del moribondo che riceve l’estrema unzione davanti ai nazisti che davano la caccia a un ricercato della resistenza nel film di Roberto Rossellini, l’indimenticabile Roma città aperta.
Oggi assistiamo a qualcosa del genere, solo che qui non si tratta più d’un vecchietto e d’un eroico prete che finirà fucilato, ma di un papa che ti assesta un devastante uno-due, un uppercut seguito da un diretto alla mascella che ti stende al suolo per il knockout definitivo.
È quello a cui assistiamo in questi giorni, su tutte le reti televisive, su tutti i quotidiani e rotocalchi italiani e su molti di quelli stranieri, a proposito dei due prelati, entrambi insigniti della dignità e dei poteri episcopali e che se ne sono visti privati, proprio in Vaticano, da un preciso, severissimo quanto inedito gesto di papa Francesco.
Ma non parlerò di loro, tanta è la desolazione che me ne verrebbe parlandone. Non che non sia giusto parlarne. Tutt’altro. È che a me non va proprio di parlarne. Come in genere non parlo e non rido quando qualcuno, pensando di farmi cosa grata o di porsi davanti a me in buona evidenza mi racconta sconcezze. Così ho letto, a proposito del vescovo polacco, la descrizione di qualcosa di ciò che lui amava vedere o fare con le sue giovani o giovanissime vittime. Schifo. Puro schifo. E una frase mi ha colpito, di un padre che commentava la vicenda: quando io ero bambino i miei genitori mi mandavano dai preti perché lì ero al sicuro. Mai io dirò a un mio figlio/a “va a giocare dai preti”.
Ma non mi va neppure di unirmi semplicemente al coro dei laudatores di Francesco: tanto lo sanno tutti, fra quelli che mi seguono, che io sono un suo fan fin dal momento in cui l’anziano cardinale diacono, francese, annunciò dal balcone che l’eletto sibi nomen imposuit Franciscus! Francesco, capite, proprio come mi ero augurato io, quella stessa mattina, su questo giornale, nel mio articolo sul conclave. Ma che potrei dire di nuovo? Non potrei che ripetere quello che scrivono e dicono tutti di lui e dello schifo a cui lui coraggiosamente si oppone.
Così ho deciso di sparigliare il gioco buttando tutto a carte quarantotto. Sarà un percorso più lungo, ma probabilmente più efficace.
Così partendo da questi tristissimi fatti di cronaca vorrei affrontare un problema sul quale mi capita di tornare spesso, sia parlando sia scrivendo, e sul quale ho scritto ultimamente alcune pagine in un mio libro di imminente uscita, sulla storia, sul presente e sull’oltre (sul futuro possibile o almeno ipotizzabile) dell’ordine sacro, il sacramento del quale i vescovi sono il grado supremo e dal quale tutti gli altri gradi, presbiteri (preti), diaconi e vari ministeri ordinati derivano.
Per parlarne qui, come faccio nel libro, mi farò guidare dall’apostolo Paolo, il convertito di Damasco, colui che senza nulla togliere a Gesù di Nazaret , è forse lecito ritenere il vero architetto della religione cristiana, che ha così potuto sfidare i secoli e i millenni.
Dunque Paolo è il primo in assoluto a tramandarci in un rigoroso quadro sinottico l’ordinamento gerarchico della Chiesa nascente. Egli ne parla per ben due volte, in due diverse lettere della sua maturità (nella 1° aTimoteo e in quella a Tito) con termini praticamente identici. Non avendo spazio per scendere nei particolari, mi limiterò all’ essenziale.
Siamo dunque intorno agli anni 60-65 dell’era cristiana, proprio all’inizio di tutto. Gesù è morto da una trentina d’anni. La Chiesa, guidata collegialmente dagli Apostoli, muove i suoi primi passi. Accanto agli Apostoli sono gli Anziani (dal greco presbiteri, da cui anche preti), detti allora anche vescovi (dal greco epíscopos, ispettore). I due termini non indicano ancora diverse persone o diversi uffici, ma il primo dice la qualità del ministro (anziano come saggezza, esperienza), il secondo la funzione. Le due funzioni si distingueranno solo qualche decennio più tardi.
Per Paolo le due funzioni si equivalgono ancora: essi sono posti a capo delle chiese locale come guide pastori maestri e sacerdoti. A tutti si richiedono le stesse qualità: essi dovranno essere tutti irreprensibili, sposati una sola volta, sobri prudenti dignitosi ospitali, capaci d’insegnare la retta dottrina, non dediti al vino, non violenti, benevoli, non litigiosi, non attaccati al denaro.
Fondamentale sarà che il vescovo-presbitero «sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se non sa dirigere la propria famiglia, come potrà avere cura della Chiesa di Dio? Dovrà anche godere di buona reputazione per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo». L’altro testo dice esattamente le stesse cose, solo in maniera più concisa.
Cosa se ne può concludere? È semplice: i vescovi e i preti di Paolo non devono frequentare scuole: gli basterà imparare dagli apostoli a fare e a dire ciò che ad essi verrà affidato, sforzandosi di imitarli in tutto quello che essi hanno visto e appreso da loro, sì che possano prima collaborare con l’apostolo, infine prendere il suo posto. Per questo essi dovranno dare buona prova di sé, così da meritare la fiducia dell’apostolo e poi sostituirlo.
Io sono convinto che questa sia la strada del futuro: giovani che a lungo vivono e lavorano e imparano e pregano vicino al loro maestro spirituale in una parrocchia o dovunque li voglia il vescovo. Preti sì, ma senza fretta: la strada sarà certamente più lunga dell’attuale, perché la fedeltà si mette alla prova con la pazienza e ne viene data la prova con la perseveranza nel servizio e nella fedeltà agli impegni presi.
Giovanissimo prete, chiesi un’intervista per La Voce, il settimanale della CEU, a mons. Antonio Fedeli, il venerato padre spirituali di molti preti del perugino. Gli posi una domanda scottante: quanti potevano essere i preti che vengono meno al loro impegno di castità. Un momento di silenzio, poi sospirò: “tanti”. Insistetti: «Tanti… quanti?». La risposta fu ancora quella: “tanti». Lo chiedevo per l’ intervista e per me stesso. L’intervista non fu mai pubblicata, ma le sue parole non le ho più dimenticate. Io non ho mai confessato un prete. Ma sono certo che don Antonio fosse sincero nella sua risposta.
Quali allora i rimedi? Uno solo, ma assolutamente decisivo, non rimandabile: basta ordinare giovanotti. Li si faccia lavorare nell’apostolato da laici, da candidati, da collaboratori, li si lasci crescere in età e in grazia e si faccia in modo che la verità anagrafica rispetti il nome che ci viene imposto: anziani. E in più i buoni anziani (preti) si prendano dove sono: nel mondo dove si lotta la vita. I seminari sono certo necessari, ma per la scuola; la vita va vissuta sul campi di lavoro e di battaglia.
Mi pare di sentirli: “ma benedetto figliolo, dove li troviamo più i celibi, se aspettiamo i 40-45 anni per farli preti?”. Io risponderei allora che di preti celibi non si parla né nel Vangelo né in san Paolo!
Eppoi non mi preoccuperei tanto di quanti preti celibi avremo, ma di che farne di quei 5000 preti celibi nel mondo sotto processo per pedofilia. E se il mondo ci girasse le spalle? Apprezzo molto la severità di Francesco, ma alla tolleranza zero io preferisco di gran lunga e da sempre la sapienza evangelica a 9 zeri.