Incontro Notturno Al Cimitero

È ancora notte quando mi siedo al computer, stamattina,a Staufen in Breisgau, una graziosa cittadina conosciuta nel mondo per essere stato il luogo in cui il celebre Doktor Faust della storia e del mito, della grande letteratura (Ch. Marlowe, J.W.von Goethe, Th. Mann) e della grande musica (Ch. Gounod, Arrigo Boito, F. Liszt) perse la vita a causa del demonio che era venuto a reclamare la sua anima in ottemperanza al patto contratto fra il celebre alchimista e scienziato e il Frate grigio (il demonio) al quale aveva chiesto protezione e aiuto nei suoi studi e nelle questioni di cuore. Locanda in cui sarebbe accaduta la morte sorge ancora su un lato della piccola deliziosa piazza della cittadina, a fianco del piccolo bel palazzo della Rathaus. I gestori del piccolo albergo che oggi ne continua la tradizione dicono di sapere con precisione in quale delle sue poche stanze sarebbe accaduto il decesso nel 1540. Prendiamone atto con beneficio d’inventario.

Ieri sera ero uscito, dopo cena, per andare a prendere un po’ d’aria e a far quattro passi prima di andare a riposare.

Al ritorno dovevo passare a fianco del cimitero, nel quale, proprio al bordo dello stesso che costeggia la strada, si trova la tomba della Sig.ra Orlanda Villinger, che mi fu molto vicina, anche concretamente, nei miei primi passi sulla strada delle mie sempre poche e saltuari pubblicazioni.

Malgrado l’ora tarda, erano appena passate le 23, entrai nel cimitero per passare proprio davanti alla tomba di famiglia della Signora. Fatti non più di due o tre passi mi sento dire GuteNacht. Non avevo visto nessuno entrando, sicché ho girato la faccia alla ricerca del proprietario di quella voce, tranquilla, gentile, triste (mi parve). Lì, seduto su che cosa non so, se pietra o legno o che altro, un uomo, completamente nell’ombra, pressoché invisibile. Un clochard? Non penso, non ne ho mai visti a Staufen, dopo quasi cinquant’anni che la frequento.

Un marito che ha perduto la sua donna e ora non sa darsi pace per non trovarsela più accanto, nel letto, la mattina svegliandosi o la sera andando a letto, a cui dare un bacio, fare una carezza, dirsi quel GuteNacht che, invece che a lei, ieri notte ha rivolto a me? O un figlio, una bambina magari, luce dei suoi occhi, e per la quale pensa, magari senza averle mai conosciute, le stesse cose che sentì e che provò il poeta Giosuè Carducci, quando perso il  figlio Dante, lo pensava sepolto: «sei nella terra fredda / sei nella terra negra / né il sol più ti rallegra / né ti risveglia amor» (Pianto antico).

Seduto sotto quell’albero, avvolto nella sua oscurità, che avrebbe fatto di lì a poco? Avrebbe lasciato il suo nascondiglio per rientrare nella sua casa ormai vuota? Avrebbe maledetto il suo letto vuoto o quella culla vuota? Avrebbe voluto forse che il sole non si alzasse mai più: tanto che aveva più da illuminare sulla terra, priva ormai di quel volto che era tutta la sua vita?

Avrei fatto bene a fermarmi a parlare con lui? Non ho osato. Sono sempre stato un timido e non ho mai attaccato discorso con nessuno se non lo conoscevo, né in treno, né in aereo, né dal dentista né in qualsiasi altro posto. Se mi rivolgono la parola, rispondo volentieri, ma che sia stato io a cominciare è successo ben poche volte.

Sono rientrato in casa triste, e quel pensiero mi ha tenuto occupato per un po’, poi il sonno ha prevalso sulla pena. Ma stamattina, accendendo il computer per battere queste poche righe (un po’ meno delle solite), ho dovuto cominciare da lì, da quella voce triste di ieri sera, voce che usciva da un cuore in pena che forse cercava conforto e io non gliel’ho saputo dare. Ma così son fatto (male, molto male!): non per mancanza di pietà, ma di coraggio nell’attaccar discorso con chi non conosco. Brutto difetto per un prete, lo riconosco. Ma credetemi: la timidezza è come l’altezza fisica: è quella che è. Oltre una certa altezza non potrai mai arrivare, neppure stirandoti, se non prendi una sedia o una scala. Ma ho visto poche persone in vita mia andare in giro con sedie o scale per borsetta.

La piccola scena di ieri sera, mi ha riportato alla mente pensieri tristi che mi sono pure congeniali, per indole e temperamento. E mi son tornate in mente le parole del Canto notturno del pastore errante dell’Asia con quella conclusione che più tragica e disperata non si può «A me la vita è male».

E mi son sentito costretto a guardarmi dentro alla ricerca di qualcosa che in me ci deve pur essere, ma di cui non saprei dire come né dove si nasconde, una specie di pessimismo di fondo, che molti dei lettori di questi articoli hanno saputo o dovuto rilevare.

Da dove viene questo sentimento profondo, sfuggente, che gioca a rimpiattino con la mia vita? Una risposta forse l’ho trovata due giorni fa, in una chiesa in una stazione termale d’origine romana con bellissime rovine recentemente riportate al pieno godimento di visitatori e ospiti delle rinomate terme. In un parco vicino, sorge una bella chiesa moderna con un fonte battesimale che vorrei tanto fosse il mio, e sull’altare un Cristo che può essere un crocifisso senza croce o un Cristo risorto che, non più soggetto alla legge della gravità anticipa già lo slancio che lo porterà in Cielo di lì a 40 giorni.

Nella mistica oscurità della bella chiesa quasi deserta, ho rivisto in pochi minuti tutta la mia vita e ho avuto la risposta che cercavo. Questa.

Quando io venni allora, giovanissimo prete, in queste terre fra questi boschi amatissimi da me per tutta la mia vita, ero una giovane vita “una delle più belle speranze della Chiesa Italiana” (Jean Guitton). Oggi, 49 anni più tardi, mi ritrovo ad essere solo una “grande delusione” sia per me, sia per la mia parrocchia natale, sia per la mia diocesi, sia per la Chiesa italiana che, se non se ne rende conto, è solo perché nella Chiesa italiana che conta, ben pochi sanno che io esisto o chi sono.

Pessimismo tetro dunque? No, all’opposto! Volontà assoluta di non perdere altro tempo. Di bruciare le tappe. Di stringere i denti. Per poter fare tutto ciò che mi resta da fare, non importa chi se ne accorgerà. Il tempo che mi resta può bastarmi. Deve bastarmi. E mi basterà. Non importa chi se ne accorgerà. Basterà che lo sappia io. E il buon Dio. Tutto il resto è vanità, diceva (piangeva?) Qoelet.

Già, il buon Dio, l’unico cui oggi guardo con un amore mai prima provato, una fiducia piena e totale, al quale non posso mai cessare di dire grazie e chiedere perdono. Nella certezza che saprà perdonarmi.

P.S. Stamattina, sono passato ancora per il cimitero di Staufen e cercato il posto dove era seduto quell’uomo. Era una panchina, invisibile nell’oscurità. Vicina alla panchina una sola tomba, con su scritto un solo nome… Ho voluto vedere le date di nascita e di morte: 1932-2014.

Dunque un lutto che dura da un anno? Mi è tornato alla mente il bel verso di Guido Gozzano sul bambino che piange sulla tomba del suo uccellino sepolto nel giardino di casa. Dunque ci sono ancora cuori di bambino nei petti cinici e duri degli umani di questo XXI secolo del ferro dell’euro e del dollaro?  


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