Scavalcato a sinistra? Siano rese grazie a Dio

Era il 4 ottobre del 2013. Aspettavamo Papa Bergoglio che veniva a celebrare la festa del Santo nel cui segno aveva voluto porre il suo pontificato, celebrando una messa in piazza San Francesco.
Ero stato incluso nel ristretto numero di preti che avrebbero rappresentato Perugia, insieme con il loro arcivescovo (non ancora cardinale) mons. Gualtiero Bassetti, nella solenne concelebrazione in piazza. Ero sopraffatto dai ricordi e dalle speranze: dal ricordo dei miei 30 anni di insegnamento di liturgia a pochi metri da lì e dalle speranze che papa Francesco suscitò subito in me.
Ero nella basilica inferiore, aspettando con altri l’arrivo del papa, previsto da un momento all’altro. Passeggiavo lentamente, riflettendo fra me e me, quando vidi il mio arcivescovo che, avendomi visto anche lui, mi veniva incontro con passo svelto. Un breve saluto e mi fa: «Di’, don Antonio, che effetto ti fa sentirti ogni giorno scavalcato a sinistra dal nuovo papa?». Era visibilmente felice del momento che stava vivendo.
Lo guardai sorridendo e risposi candidamente: « Io scavalcato? Eccellenza, posso assicurarla che ogni volta che lui svolta a sinistra, mi trova lì che lo sto aspettando da quarant’anni”. Ridemmo tutti e due, contenti. Poi ognuno riprese la sua strada. Io, in particolare, pensai a come è strana, a volte, la vita!
Questo ieri. Perché oggi non so più se potrei dire ancora quelle parole. Forse no. Anzi credo proprio di no. Perché mai mi sarei sognato di sentire un papa dire ciò che lui dice e fare ciò lui fa.
Mai e poi mai, per esempio, avrei pensato possibile che un papa potesse mettere in discussione il proprio diritto di esprimere un giudizio sui gay («chi sono io, povero papa, per poter giudicare un mio fratello gay?). Come pure, e anzi meno ancora, avrei mai potuto pensare che un papa potesse arrivare a invitare a casa sua un transgender con la sua fidanzata, e abbracciare l’uno e l’altra senza ombra di imbarazzo. Io stesso non riesco a immaginarmi papa che fa queste cose. E notate che intanto che io confesso questi miei limiti, io mi sento rodere dentro, quasi rinnegassi la mia (solo presunta?) vocazione di pioniere. Mi sento un po’ come l’esploratore che ha paura di entrare in un buio, strettissimo cañón o in una fitta giungla tropicale: che esploratore sei, se l’ignoto ti fa paura?
A questa mia “vocazione” io credevo d’essere rimasto sempre fedele, e invece ora sono costretto a chiedermi se, davanti a certi segnali stradali o a certi divieti di accesso, io non abbia talvolta peccato di eccessiva prudenza, di troppo acritica obbedienza. O come un artificiere che arretra davanti a un cartello che dice: PERICOLO: TERRENO MINATO.
Perché è evidente che se il papa oggi queste cose le dice e le fa, vuol dire che si potevano dire o fare anche prima che lui le dicesse o le facesse. Solo che bisognava, per dirle e per farle, essere un Jorge Bergoglio e non un Antonio Santantoni.
O forse neppure questo è del tutto vero e neppure troppo giusto: perché poi, a pensarci bene, queste cose, finché Bergoglio era solo Bergoglio e non Francesco, non sappiamo mica se già le facesse oppure no. O magari le faceva in privato, con discrezione, che non facessero scalpore, che non lo dessero in pasto ai media. Forse ha avuto bisogno di cambiare nome e di vestirsi di bianco per poter anche cambiare pelle e con la pelle anche le parole che era solito dire e le azioni che era solito fare.
In altre parole ha avuto bisogno di diventare papa per potersi decidere a percorrere in senso contrario strade a senso unico o addirittura del tutto chiuse al traffico. Strade a lui già note, ma che si guardava dal percorrere, non avendone licenza. O forse le percorreva solo “di notte”, quando era sicuro di non incontrare guardie sulla sua strada.
Perché è questa la domanda che io mi pongo: da quanto tempo il papa pensa le cose che oggi dice e fa: cose finora mai udite e mai messe in pratica nella Chiesa cattolica? Ha cominciato a pensarle solo da quando ha preso in mano il timone della barca di Pietro o le pensava anche prima? E se le pensava anche prima, le faceva anche, prima? E se le faceva, le faceva apertamente o con discrezione? E se non le faceva, perché non le faceva? E se le faceva con discrezione, perché non le faceva apertamente? E perché prima non ne parlava con la stessa chiarezza di oggi? Per prudenza? Per obbedienza? Per non mettere in confusione i suoi preti e il suo popolo?
O, se invece prima non le pensava (e perciò non le faceva), come mai ha potuto pensarle solo quando ha preso in mano quella barra di timone e solo allora? Che cosa ha visto in Vaticano per provare il bisogno di dirle? Perché chi quelle stesse cose le pensava e le diceva e le faceva già prima dell’era Bergoglio, certo non in Vaticano però, era visto come un pericoloso sovversivo, o un personaggio un po’ strano, tutt’al più suggestivo. Un don Gallo, per esempio. Cosa dovremmo pensare oggi di loro: erano tutti altrettanti Ketzer (eretici) o altrettanti Propheten (profeti)?
Era questa la domanda che poneva alla Chiesa di Giovanni Paolo II prima maniera (1979) il titolo della tesi di laurea dell’allora giovane Bernardino Greco, francescano, di vocazione eremita, laureato a Tubinga sotto la direzione del più celebre dei teologi del dissenso, Hans Küng? La domanda del titolo si riferiva a Ernesto Buonaiuti, grande e tragica icona del modernismo italiano, ridotto d’imperio allo stato laicale e sospeso dall’insegnamento in tutte le scuole di qualunque ordine e grado della Chiesa e, in ossequio ai Patti Lateranensi del 1929, anche dello Stato. Certo, P. Bernardino (abbiti un caro saluto se potrai leggermi!), conosceva bene la giusta risposta, ma non erano in molti a conoscerla.
Tornando a noi, sarebbe estremamente importante sapere da quanto tempo papa Francesco pensava e faceva le cose che oggi dice e fa.
Per prudenza? Spero proprio di no. Per modestia, per mettere in pratica la parola del Signore «non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3)? Sarebbe un’ottima ragione. Per non attirare l’attenzione dei media sulla sua persona, tanto più in una terra infida come l’Argentina di qualche decennio fa? Sarebbero entrambe buone ragioni, la prima encomiabile, la seconda ragionevolissima.
Prendiamo per buona la prima. Fare il bene e non dirlo è proprio del testimone e del santo. Ma dove sarebbe il profeta?
Il profeta è per definizione e per etimologia uno che parla. Uno che dice le cose senza guardare in faccia nessuno, rispondendo solo alla propria coscienza e a Dio che lo invia a parlare. Se dunque Bergoglio avesse fatto il bene senza dirlo, poteva anche essere un santo, un testimone, ma questo non basterebbe a farne un profeta. O forse Bergoglio aveva già capito un’altra cosa che io incomincio solo ora a capire: che è profeta anche chi parla solo con l’esempio, che è già da solo un’ottima forma di profezia. Forse proprio per questo oggi nessuno parla con maggiore efficacia, con più grande forza profetica di Francesco. Alla scuola di Cristo, Parola di Dio fatta carne, ogni azione dell’uomo Gesù Cristo si fa Parola di Dio e dunque profezia.
È ormai tempo di tornare a prendere la parola di Gesù nel suo senso più forte: parola che si ode, che si vede, che ci tocca (se l’azione ci raggiunge nella carne o anche solo nel cuore). Scenario grandioso per ogni aspirante profeta, anche della più umile condizione, donna o uomo che sia, cólto o incólto che sia: se avrai la tua coscienza per guida e il Cristo come stella polare, va pure per la tua strada, senza mai girarti indietro: Dio potrà servirsi di te per realizzare i suoi scopi. I papi, come l’intendenza, seguiranno.


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