«Non parlo si noti bene, di “dare moglie ai preti”. Non ci penso neppure. Dico invece che forse non sarebbe male che a un prete fosse dato di cambiare vita senza il timore che qualcuno gli possa gridare dietro spretato! E di sentirsi ancora a servizio della Chiesa». E concludevo… «Se a qualcuno interessa, a domenica prossima». Così terminavo domenica scorsa il mio articolo domenicale. Oggi vorrei mantenere la promessa.
Ho sempre sostenuto l’opportunità per la Chiesa di poter disporre d’un clero sposato accanto a un clero celibatario. La prima ragione, la più forte e forse l’unica vera è questa: una Chiesa senza preti sposati è una chiesa più povera, perché è una Chiesa a cui manca un carisma importante, quello del prete sposato. Non è un carisma da poco, e io mi ero stancato di sentirmi dire, ogni volta che parlavo della famiglia e dei suoi problemi “Ma che ne sapete voi dei problemi fra marito e moglie, fra genitori e figli? Voi che non dovete trepidare per il lavoro che non si trova, per la malattia d’un figlio, per l’insofferenza dei giovani davanti ai genitori… Voi che non sapete la disperazione che si prova quando si resta soli…”. Sicché ormai non ne parlo quasi più. E se capita a me, capiterà anche a qualcun altro, mi immagino.
Né potrà bastare rispondere che non è necessario aver avuto la tubercolosi per curare un tubercolotico, e questo è certamente vero. Ma poiché la famiglia non è affatto una malattia grave, anzi può benissimo costituire un campo di esperienza e un osservatorio privilegiato per studiare l’uomo nelle sue diverse età e stagioni e condizioni di vita, ne può ben conseguire che non guasterebbe avere fra i preti qualcuno che la famiglia l’ha vissuta o, meglio ancora, la vive tuttora dall’interno, così da poter meglio conoscerla per meglio discuterne, analizzarne le potenzialità e i difetti e indirizzarne la pastorale. Allora, riconoscendosi in chi ne parla, i nostri laici potrebbero essere meglio disposti ad ascoltarli e magari a seguirne i consigli e i suggerimenti anche sulle questioni più delicate intime e gelose.
Allora diamo moglie a tutti i preti? No di certo! E certo non a me. La famiglia non è mica un vaccino, che tutti ne devono ricevere un’iniezione perché se ne sviluppino gli anticorpi che ci difenderanno dal contagio! E allora?
Allora la famiglia solo a chi la vuole, senza negarla e senza imporla a nessuno, perché nella Chiesa ci siano preti con e preti senza famiglia, per avere un clero più aperto, più inclusivo, più esperto e più ricco di esperienza e di umanità di quanto non lo sia ora. Ma con un ma molto importante.
È un ma che viene da lontano, da molto lontano. Da san Paolo niente meno, che quasi duemila anni fa ne scrisse in due occasioni con parole quasi identiche. Io ne riprodurrò una sola:
«Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio prudente, dignitoso, ospitale, capace d’insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?… È necessario che egli goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo» (1 Tm 3, 2-7; vedi anche Tt 1,6-9).
Paolo dunque il suo vescovo (per Paolo i termini vescovo e presbitero – da cui, per abbreviazione, prete – sono ancora vocaboli assolutamente equivalenti) lo vuole sposato una sola volta e con figli sottomessi con ogni dignità, il che significa, senza ombra di dubbio, che quei figli devono essere già cresciuti e che siano conosciuti come giovani maturi, seri, “con ogni dignità”. Anzi, sembra proprio che per Paolo, questo della famiglia e dei figli non sia un particolare di poco conto, un optional che può esserci o non esserci, ma qualcosa di quasi essenziale, anzi la garanzia dell’affidabilità del candidato: Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Come dire: “quale il padre tale il vescovo”; che se i suoi figli saranno stati cresciuti male, come vorrete che crescano i fedeli della Chiesa che a quell’uomo verrà affidata? Per cui se cercate una prova sull’autenticità e sull’idoneità di quella “vocazione” (intesa qui come aspirazione a ricoprirne il ruolo – «se uno desidera essere vescovo, desidera un nobile lavoro», 1Tm 3,1–, la prova più sicura la troverete nella condotta dei suoi figli.
Confesso che io non riesco a capacitarmi come abbia potuto la Chiesa del secondo millennio cancellare dai suoi canoni queste parole di colui che in molti hanno considerato e considerano se non come il fondatore (titolo che può spettare solo al profeta Gesù di Nazaret), almeno come il vero padre costituente della Chiesa come societas, come corpo sociale organizzato che ha potuto e saputo affrontare e, almeno finora, vincere la sfida dei millenni. Un ruolo, quello di Paolo che ha posto le basi di quella forza ideale che ha consentito alla Chiesa cattolica di affrontare al meglio, e con i minori danni fra tutte le Chiese sorelle, la sfida che le varie modernità hanno saputo e potuto lanciare nei secoli contro il cristianesimo.
Ma ora vorrei tornare a un’idea che ho soltanto accennato nell’articolo di domenica scorsa e che avevo promesso di approfondire oggi. Ho già detto con estrema chiarezza, che proprio in ossequio alle parole di Paolo sono assolutamente convinto che non sia un vantaggio per la Chiesa consentire il matrimonio ai preti già in esercizio di ministero. O sposati lo sono già prima, o sarà bene che restino celibi finché saranno nel pieno esercizio del ministero.
Ma può succedere, come è successo al prete di Cuneo, che qualcuno a un certo punto senta sorgere in sé un qualche nuovo desiderio, una nuova inclinazione che potrebbe condizionare pesantemente il suo ministero nel futuro, togliendogli gioia, serenità, appagamento. O una stanchezza dovuta cause anche diverse: l’età, la salute, la solitudine, la ristrettezza economica, la stanchezza di un rapporto a volte difficile con la propria gente. E un desiderio di normalità.
Che dire, che fare in casi come questi? Mantenere nel ministero un uomo scontento, forse frustrato, deluso, o ormai semplicemente inadeguato al duro impegno parrocchiale o comunque ministeriale? O consentirgli di cambiare in tutto o in parte il suo modo di vivere? Perché non mancano preti che chiedendo di essere esonerati dai doveri ministeriali e dalla condizione celibataria, continuerebbero volentieri a rendersi utili, secondo le loro mutate possibilità, alla Chiesa o alla comunità cui hanno dedicato tanta parte della loro vita.
Non si potrebbe prevedere per loro uno status di ministero discontinuo, per i momenti in cui si fa più intenso il lavoro in parrocchia o in diocesi: benedizione delle case, feste patronali, Pasqua e Natale, preparazione immediata ai sacramenti, catechismo in parrocchia, celebrazioni penitenziali comunitarie, congressi eucaristici ecc. Un corpo di riservisti a cui ricorrere quando il lavoro si fa più duro, come farebbe un medico in pensione di fronte a un caso urgente in autostrada, o in aereo, o un’epidemia o il volontariato in terra di missione… Il prete continuerà a sentirsi e a fare il prete e intanto avrà una sua vita parallela, non clandestina, ma conosciuta e riconosciuta, che gli consenta di non sentirsi un transfuga. Una ricchezza per la Chiesa e un toccasana per un’anima finalmente serena.
Qualcosa di nuovo? Anzi, d’antico
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