Non! Je ne suis pas Charlie! No davvero!


Subito una premessa. Fondamentale. Ciò che scriverò in queste righe non toglierà nulla allo sdegno che ogni persona civile deve necessariamente sentire davanti ai fatti di Parigi. Quello sdegno è anche il mio. Ma il mio sarà un discours de la méthode. E qui le idee potranno essere anche molto diverse da quelle correnti.
Le notizie che arrivano da Parigi sono di quelle che possono toglierti ogni nostalgia di futuro. Che puoi aspettarti da un mondo così, dove si ammazzano una dozzina di persone solo perché hanno avuto il cattivo gusto di offenderti su ciò che hai di più sacro? E d’altra parte: che speranza può offrirti un mondo dove i moderni illuminati, eredi –probabilmente degeneri – degli Illuministi della prima ora, ritenendo d’avere un conto aperto con gli islamici, anziché prendersela con loro, scaricano la loro satira rabbiosa sul Padre fondatore? Dicono che è per la libertà di pensiero; e per il sacrosanto diritto di satira; e perché nessuno può porre limiti e freni al pensiero, alla coscienza, alla parola, alla matita d’un vignettista. Perché la satira o è così, o non è.
Dicono anche che in una società laica non può esserci posto né per i reati d’opinione né per quelli di vilipendio (attenzione: si parla di vilipendio non di critica!). Tesi ardita, perché il vilipendio è un reato pressoché universalmente previsto e punito per legge: «In diritto penale, la figura del reato di vilipendio consiste nell’offendere con parole, scritti e atti di grave e offensivo disprezzo, valori ritenuti particolarmente degni di rispetto (reato di vilipendio alla nazione, alla bandiera nazionale, della repubblica, delle istituzioni, della religione, di cadavere o di sepultura)» (Vocabolario della Lingua italiana, Istituto Treccani). Affermato il principio, si potrà discutere senza fine su ciò che in quel concetto rientra e ciò che non può e non deve rientrarvi. Dalla definizione appena citata risulta che il vilipendio di religione vi rientra a pieno titolo.
Immagino che a questo punto qualcuno avrà già capito da quale punto di vista intendo muovermi e dove voglio arrivare; così è assai probabile che alcuni staranno già storcendo il naso o facendo smorfie con la bocca, riservandosi almeno il diritto di criticarmi. Diritto riconosciuto.
Perché sì, lo confesso: io, che mi unisco con tutte le mie forze al coro di esecrazioni per la ferocia dell’azione terroristica di Parigi, mi tengo invece a debita distanza dal coro degli aedi inneggianti agli eroici martiri della libertà di pensiero di parola e di matita. Per essere più chiaro: io condanno, senza esitazioni e con forza, la ferocia e la freddezza dei killer vendicatori di Allah e dell’intangibilità della propria religione, ma mi tengo fuori dal coro di chi esalta la libertà e il coraggio di quelli che passano la vita a deridere e a offendere la fede di chi ne ha una diversa dalla loro (che non ne hanno nessuna) e questo in nome di una libertà di pensiero, di espressione, di penna e di matita senza limiti né freni: libertà eretta a criterio assoluto di civiltà e di barbarie.
Credo di poter dire, in considerazione della mia storia personale e per tutto ciò che ho dovuto subire a causa di quello che alcuni chiamano la mia vocazione (profezia, parresia, coraggio, franchezza, libertà di giudizio e di parola, per i più benevoli; presunzione, vanità, sindrome del bastian contrario per tutti gli altri) di avere titoli sufficienti per poter dire la mia su un tema tanto lacerante.
In proposito, credo di potermi rendere questa testimonianza: non ho mai rinunciato a dire con totale franchezza il mio pensiero anche sui temi più controversi e sensibili della moderna teologia, anche quando questo avrebbe potuto costarmi il posto di docente in qualche Università o Istituto teologico. Ma i miei contrasti sono sempre stati solo sulle idee, e mai e poi mai mi sarei permesso l’irrisione e il discredito su questo o quel professore, su questa o quella dottrina magari agli antipodi di ciò che insegnavo io.
Meno ancora mi sono mai permesso il sarcasmo contro i simboli di quelle istituzioni con le quali magari ero al momento in attrito. Ciò non vuol dire rinuncia al proprio pensiero, ma solo rispetto per l’interlocutore e per i rispettivi ruoli. E se ciò vale per le idee tanto più il principio vale per i simboli. Perché nessun argomento, nessun ragionamento avrà mai l’efficacia del simbolo e nessun concetto potrà mai avere la forza dirompente del simbolo.
È tanto vero questo che, tornando al concetto di vilipendio, il reato e la relativa pena è sempre in relazione non alla cosa o alla persona in sé, ma sempre a ciò che quella cosa o quella persona significa nel contesto in cui essa si trova a esercitare la sua funzione. Un esempio solo: dare dell’imbecille al sig. Giorgio Napolitano può essere anche solo un gesto di maleducazione; dare dell’imbecille al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è reato di vilipendio contro lo Stato. Così è d’un pezzo di tela bianca rossa e verde lasciato distrattamente su un divano, e una cosa è lo stesso pezzo di tela issato sulla facciata del Quirinale.
Che queste cose i vignettisti e i giornalisti di Charlie Hebdo non le sapessero? È da escludere, e proprio per questo han fatto quello che han fatto. Essi sapevano che avrebbero ferito a morte la suscettibilità di persone che amano e rispettano quei simboli più della propria stessa vita. Chi può arrogarsi il diritto di dir loro che sono solo dei poveri cretini fanatici e che noi, Figli dei Lumi, sui loro simboli possiamo anche sputare? Di norma la risposta non si fa attendere: “Attento! Sai bene ciò a cui vai incontro”. Oppure: “Hai voluto ignorare l’avvertimento? Saprai che l’Islam non scherza mai”.
L’Occidente non ha creduto di non doverlo prendere sul serio. “Nessuno ci potrà mai imporre autocensure”. Da quei sanguinari poi? Ma è qui che l’Occidente ha sbagliato: perché non c’è nessun bisogno di autocensura per chi rispetta l’altro per ciò che è: un fratello con idee diverse dalle nostre. Con lui cercherò il dialogo non lo scambio di schiaffi e sputi e pugni in faccia. Chi rispetta il suo simile non si sogna nemmeno di offenderlo. Lo sforzo sarà tutto nel cercare il dialogo, il confronto e il punto d’ incontro. Non è forse vero per tutti che una foto, un ricordo della persona amata, è un po’ qualcosa di lei, e se tu oltraggi quel ricordo o quella foto è un po’ come se oltraggiassi la persona stessa.
“Ma io non credo nel Profeta, come non credo in Gesù Cristo e io, laico convinto, rido di tutto e di tutti”.
La risposta non si fa attendere: “Tu, ma non io. E per me, che cristiano non sono, non vige il comandamento di Gesù di Nazaret: a chi ti colpisce una guancia, porgi anche l’altra (cfr. LC 6,29). Prova a colpire il Profeta: ti ritroverai senza testa”.
Avviandomi a concludere lo farò formulando un auspicio che so irrealizzabile per oggi, ma poiché io cerco di muovermi nel solco di Papa Francesco, lo formulerò rifacendomi proprio a lui e al suo esempio: li rivedo chini tutti e tre sulle zolle dei giardini vaticani, intenti a un lavoro a cui non sono certo abituati, né il cattolico né l’ebreo né il musulmano. Ma quel giorno, il sole sorrise sui sette colli di Roma e sul mondo intero! L’islamico Abu Mazen, l’ebreo Shimon Peres il cattolico papa Francesco, si rompevano la schiena per piantare un ulivo: cose mai viste.
Ecco perché io non sarò a Parigi e non sarò Charlie Hebdo: perché sono rimasto a Roma se non a piantare, almeno ad annaffiare, quell’ulivo. Perché è di ulivi che il mondo ha bisogno, non di vignette sataniche.