Leopardi ieri oggi e domani


Su pressante consiglio d’un’ottima amica, sono andato a vedere il film di Mario Martone, Il giovane favoloso, alias Giacomo Leopardi. Ho molto amato il grande e infelice poeta recanatese nella mia gioventù. Né sono stato l’unico. I giovani hanno sempre amato l’infelice autore de L’Infinito. Me ne aveva distolto quel titolo infelice. Oggi prima o poi, tutto diventa favoloso.
Il film gronda tristezza per la spietata crudezza delle immagini. Quel relitto d’uomo prima soltanto gobbo, poi piegato ad angolo retto, poi addirittura ad angolo acuto mi ha colmato d’angoscia e mi ha fatto pensare agli anni della mia prima giovinezza quando avrei dato qualunque cosa per essere come lui. Mi mancava però qualche metro di stoffa.
Colpisce la sua avversione per il “natio borgo selvaggio” e la sua insofferenza per la sua famiglia, soprattutto per la madre. Ma non è facile gestire un genio. Quanto alla sua fede non ha retto al confronto con gli autori, anche proibiti, che aveva potuto trovare nella biblioteca di casa Leopardi. E come stupirsi per l’insofferenza per la sua famiglia che più cattolica e papalina non si poteva?
Chissà perché mi è venuto spontaneo stabilire un rapporto fra il film di Martone e quello di Paolo Sorrentino La grande bellezza, con quel mondo decadente e sfatto che a sua volta mi ha richiamato La dolce vita e il Roma di Fellini.
Che hanno a che fare questi titoli con il film di Martone? Io vi ho trovato un elemento comune: la disperazione, vera protagonista delle diverse storie. La disperazione consapevole e tragica dell’infelice poeta il cui sguardo troppo acuto non poteva certo fermarsi alla scintillante facciata del sepolcro imbiancato nel quale egli si sapeva sepolto, perché egli, a differenza degli altri cadaveri che vi marcivano dentro, aveva saputo misurarne e coglierne tutta la desolazione del disfacimento che lo abitava, mentre negli altri tre film citati avviene l‘esatto contrario: che vuoi farci, se questa è la realtà, tanto vale cavalcarla e trarne partito e vantaggi. È questo il credo e il programma di Jep Gambardella, il protagonista, proprio all’inizio di La grande bellezza: io non volevo essere solo un mondano, ma il re dei mondani; non mi sarei accontentato di partecipare alle loro feste, volevo avere il potere di fargliele fallire. La citazione è a memoria naturalmente, ma il concetto mi pare reso fedelmente. E gli squallidi personaggi che gli stanno attorno, dimostrano che egli aveva saputo realizzato la sua ambizione.
È lo stesso mondo fradicio che Fellini metteva in scena nelle sfilate di moda per l’aristocrazia nera romana a cui prendevano parte cardinali sfatti e monsignori vuoti, smaniosi solo di avanzare sulla scala gerarchica romana, perché allora la carriera o era romana o non era, perché qualunque “altrove” poteva essere visto anche come un esilio se non era un parcheggio in attesa della meta più alta di tutte, il soglio di Pietro.
Quanto a Sorrentino ci mostra un cardinale che si appassiona solo quando parla di leccornie e di vini prestigiosi su cui sa tutto, pronto a sfilarsi appena l’interlocutore gli accenna a un caso di coscienza che non doveva andare molto al di là d’un frivolo diversivo nel vuoto assoluto di quelle coscienze, per le quali il corpo sfatto d’una prostituta da bassofondo e lo spogliarello collettivo de La dolce vita sono parte della stessa noia.
Ben altro il clima nel film di Martone, ma la disperazione è la stessa, anche se la sua origine è del tutto diversa. Anche qui fa apparizione il sesso vuoto e squallido delle classi agiate e proprio nella persona dell’amico e protettore del poeta, quell’Antonio Ranieri napoletano, di cui probabilmente non si finirà mai di chiederci chi fosse realmente e cosa rappresentasse realmente per il poeta giunto alla fine della sua vicenda terrena. Qui viene presentato nell’assai poco commendevole veste di uno che si gode anche le poche donne di cui Giacomo s’era innamorato. Perché poi a innamorarsi era solo lui, Giacomo, perché loro, le donne, lui, genio quanto si vuole ma gracile e deforme, neanche lo vedevano. Anche questo era parte della sua tragedia. «I suoi amori erano quasi tutti unilaterali, e inavvertiti dalla persona amata» (Antonio Ranieri, 1880). Quanto a noi, di comune cultura, parlando delle donne di Leopardi, non si va molto al di là delle dolorose storie di Silvia e di Nerina anzitempo rapite alla vita e all’amore.

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In questo desolato spaccato d’umanità disperata, acquista davvero una dimensione tragica il contrasto fra i disperati di lusso, tali perché sazi e stanchi di tutto, e l’esercito dei brutti sporchi e cattivi a spese e a scorno dei quali vivono i primi. Lo chiamano anche il bel mondo – sanguisughe mai sazie, arrampicatori sociali, uomini e donne senza scrupoli che hanno altro dio che il denaro e il loro stesso ventre (Fil 3,19). Quanto al sesso esso diventa il simbolo della loro potenza di cui far collezione e mostra : “Madamina, il catalogo è questo” (Leporello nel Don Giovanni di Mozart). Quanto ai secondi così ne scrivevo molti anni fa “quelli che nessuno mai vuole / che ognuno respinge/…che non hanno speranza / che non hanno bellezza / che non hanno una patria / quaggiù…”.
Perché il vero problema non è né l’eroismo tragico di Leopardi, né il suo ateismo di ritorno (se la natura mi è nemica è perché non esiste un Dio capace di dominarla), ma la stupidità dell’uomo che ai danni dello sterminator Vesevo ha saputo aggiungere anche quelli prodotti dall’uomo: se ogni rigagnolo può mettere in ginocchio una città, se lo smog oscura il sole come nessuna nube potrebbe mai fare, se la terra produce frutti avvelenati non è certo per colpa d’una natura matrigna, ma d’una umanità che non sa più rispettare né la terra né le leggi che l’universo s’è dato in miliardi di anni di evoluzione. Se un errore commette il poeta, è attribuire alla natura anche le colpe dell’uomo.
Davanti a queste tragedie, l’ateo Leopardi poteva solo piangere e il credente può pregare, ma il cristiano adulto e consapevole sa che deve soprattutto rimboccarsi le maniche e impegnarsi per il rispetto della Grande Madre, la Terra. A questo lo deve spingere la sua fede, contro ogni pigrizia, contro ogni tentazione d’avidità e di rapina.
Conosco troppo poco di Leopardi filosofo (Operette morali e Zibaldone) per avventurarmi in una analisi del suo pensiero, come pure per dire se abbia più contribuito al suo ateismo la sua filosofia o la pessima idea che egli s’era potuto fare dei preti e della Chiesa in generale. Ma una domanda m’intriga: chi ha potuto innamorarsi di donne che vedeva e di cui ascoltava la voce solo da lontano, rivestendole, di suo, di quell’Ewig-Weibliche (l’eterno-femminile di Goethe), come mai non ha potuto innamorarsi di Gesù di Nazaret, del “più bello tra i figli dell’uomo” (Renan) e del suo Ewig-Menschliche, l’Eterno-Umano; o qualcuno gliel’aveva ridotto a un santino di cattivo gusto?
Oggi molte cose stanno cambiando nella Chiesa. Basterebbe questo a far tornare alla fede il Leopardi filosofo? Non ci scommetterei, ma forse qualche cosa cambierebbe anche per lui. Quanto non so, ma forse basterebbe a non fargli più scrivere quel tremendo “a me la vita è male” (Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia). E quell’altro “È funesto a chi nasce il dì natale” (ivi).
Chiudo con una massima che traggo dal film: “Solo chi dubita sa; e quanto più dubita, tanto più è nel vero”. Non è l’elogio del dubbio come unico Vero. È l’elogio del metodo: se non dubiti, non progredirai mai nella tua ricerca della verità. In questo senso, io son d’accordo con lui.