“Bakhita… Chi era costei?”. Mutuo da Manzoni e dal suo don Abbondio l’avvio di questo articolo che mi pesa scrivere come mi pesava da ragazzo bere l’olio di ricino che la mamma mi propinava ogni volta che qualche linea di febbre mi scampava dalla scuola. Perché certe notizie te ne toglierebbero la voglia, ma rafforzano il senso del dovere. Così è oggi per me.
È lo schifo assoluto quello che me l’impone. In Nigeria 267 ragazzette di scuola vengono rapite da terroristi islamici integralisti, che minacciano di venderle schiave se esse non accetteranno le regole e i precetti della fede islamica, primi fra tutti la rinuncia all’istruzione per le donne e l’obbligo dell’ hijab (l’abito pesante, grigio o nero, lungo fino ai piedi che lascia scoperti solo la faccia dagli occhi alla bocca: poveri corpi di bambine, prigioniere di costumi ancora più brutti e tristi di quelli di certe nostre suore d’un lontano passato. Alcune di loro (una quarantina) si sarebbero già sottomesse alla volontà degli aguzzini, e dunque non sarebbero più in pericolo, per le altre restano due alternative: essere vendute come schiave o come mogli di piacere e di fatica. In pratica la stessa cosa. O, peggio ancora, vendute come donne da ingravidare a ciclo continuo, per rendere sempre più numeroso e più forte il popolo dell’Islam. Il numero fa la forza. E allora sotto a far figli. Tanto morta una fattrice, se ne mette sotto subito un’altra. Per la gloria di Allah e dell’Islam!
Quasi non bastasse, ieri, venerdì, un’altra notizia, altrettanto atroce. Una donna cristiana, già madre e ora incinta di otto mesi, è posta davanti a una scelta: o convertirsi all’Islam o, secondo la legge coranica, l’impiccagione come pena dell’apostasia.
Nessuna apostasia, si difende la donna: lei è sempre stata cristiana. Ma suo padre era musulmano, ribatte l’accusa, e ogni figlio di mussulmano nasce mussulmano. Se ora la donna si dice cristiana, è già un’apostata.
«Mio padre, musulmano, mi ha abbandonato quando avevo cinque anni» si difende la donna. «Allevata in una casa cristiana e battezzata, mi sono sempre considerata cristiana. Nessuno mi può accusare di abiura». “Troppo poco” rispondono i terroristi che insistono per la pena di morte. Che forse non ci sarà. Il mondo intero si sta mobilitando. Ma i casi come questi sono molti, e solo pochi salgono agli onori delle cronache. L’Islam, seconda religione nel mondo dopo il cristianesimo, non concede molto alla libertà di coscienza.
Ora mettiamo insieme il tutto: 267 ragazzette rapite. Tutte femmine, nessun maschio. Il mercato degli schiavi, uno dei più atroci crimini contro l’umanità: un traffico nel quale l’Islam ha goduto a lungo, e forse ancora gode, d’un primato indiscusso. A milioni e milioni ne hanno venduti nel mondo in tutti questi secoli, razziandoli dovunque poteva: Africa, India, Asia meridionale… nella stessa Europa.
Proprio in questi giorni sto leggendo qualcosa su Bakhita, oggi Santa Bakhita, una piccola suora canossiana, nera, rapita anche lei, strappata alla sua famiglia, venduta come schiava, trattata peggio d’una cavia da esperimenti. La sua storia, una fra le poche finite bene, merita d’essere conosciuta.
Nata nel 1869 nel Darfur, regione occidentale del Sudan, Bakhita è morta suora canossiana nel 1947 in Italia, a Schio (VI). Una di quelle storie che solo a leggerle ti va di traverso la giornata.
Aveva solo nove anni quando fu rapita da due brutti ceffi, neri essi stessi, cacciatori di schiave da vendere a gente facoltosa e senza scrupoli, per la quale il dolore d’un innocente o non vale certo i quattro soldi che se ne possono ricavare. Anzi può anche essere un ingrediente in più per sentirsi onnipotenti.
Il seguito di questa storia ci costringerà spesso a fermarci per chiederci che bestie mai sono queste? E quale bestia feroce può esser detta feroce al confronto di loro? Tre soli esempi dalla vita di Bakhita. A raccontarceli è lei stessa.
La fustigazione: «Un giorno ci trovammo presenti per caso (Bakhita e una compagna) quando il padrone altercava con la moglie. Quegli, per sfogarsi, ordina a noi due di scendere in cortile e comanda a due soldati di buttarci a terra supine e di flagellarci. Quei due con quanta forza avevano cominciano il crudele supplizio e ci lasciano tutte e due immerse nel nostro sangue. Ricordo che la verga, mirata a più riprese sulla coscia, mi portò via pelle e carne…e fui costretta a rimanere immobile sul giaciglio per più mesi».
Il tatuaggio: «Era costume che gli schiavi, a onore del padrone portassero sul corpo dei segni o solchi particolari ottenuti con tatuaggio per incisione. Viene una donna esperta in quest’arte crudele. Ci introduce sotto il portico e la padrona dietro con lo scudiscio in mano… La donna si fa portare un piatto di farina bianca, un altro di sale e un rasoio. Ordina alla prima di distendersi per terra e a due schiave più forti di tenerla una per le braccia e l’altra per le gambe. Si china su di lei e comincia con la farina a fare una sessantina di sottili segni sul ventre della disgraziata. Finiti i segni prende il rasoio e giù, giù tagli su ogni segno che aveva fatto. Finita questa operazione prende il sale e con tutta la forza stropiccia ogni ferita, perché vi entri a ingrossare il taglio, al fine di tenerne i labbri aperti. L’infelice tremava tutta e io con lei, aspettandomi la mia parte».
Poi toccò a Bakhita: «La donna, avuto dalla padrona l’ordine di risparmiarmi la faccia, comincia a farmi sei tagli sul seno e poi sul ventre fino a sessanta. Sul braccio destro quarantotto… mi sentivo morire a ogni momento, specie quando mi stropicciò col sale.
Immersa in un lago di sangue, fui portata sul giaciglio dove per più ore non seppi più niente di me».
L’umiliazione della femminilità: Il corpo di «Bakhita si sviluppava armoniosamente. Il generale turco (il padrone) la guardava con compiacenza, fiero di possedere una schiava di razza così pura. «Ma un giorno disse a sua moglie: “quella schiava si sviluppa bene, ma non mi piacciono quelle forme spiccate”. Nel pomeriggio il padrone mi chiamò, io corsi e m’inginocchiai davanti a lui come era d’uso. Egli mi prese con forza i seni fra le mani e cominciò a torcermi le mammelle come fossero stracci lavati. Io svenni e per quel giorno fui lasciata stare. Ma il giorno dopo e in due altri successivi, tornò alla carica. Il padrone torceva questa mia carne già tanto martoriata e la premeva per sciogliere anche i più piccoli nodi e io dovevo stare ferma senza un lamento. Altrimenti sarei stata anche frustata. Ora io sono liscia come una tavola».
Che potrei dire ancora, per dire tutto il mio schifo per essere della stessa razza animale di chi sa fare queste prodezze? Come potrei riconciliarmi con quest’umanità di cui sono parte e che mi fa ribrezzo?
Allora penso a Bakhita, alla piccola santa che della sua vita ho voluto fare un segno di mitezza, perdono e carità. Penso a san Bartolomeo, che fu scuoiato vivo; penso a don Carlo Gnocchi, primo donatore di cornee; penso a sant’ Agata e ai suoi seni strappatile con le tenaglie, a san Lorenzo arrostito su una graticola e allora mi riconcilio un po’ con questa mia spregevole specie. Poi, finalmente penso a Lui, che sulla croce ha dato il suo corpo e tutto il suo sangue per noi; che per essere vicino a tutte le Bakhite del mondo, a voluto dare Lui stesso l’esempio. E mi dico che senza di Lui; senza chi, come Lui, sa vivere e morire per amore, questo mondo sarebbe certo il peggiore di tutti i mondi possibili.
Ma appunto: per fortuna c’è Lui!
Quante Bakhite nel nostro verminaio umano?
da
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