Su La Stampa di giovedì 8 maggio Gian Enrico Rusconi ha segnalato a noi lettori un libro di Marco Politi dal titolo ruffiano e accattivante: Francesco tra i lupi (Laterza) presentato al Salone del libro di Torino.
Bel titolo perché tra Francesco e i lupi c’è familiarità da sempre, almeno da quando un famosissimo fioretto di San Francesco (Fioretti, XXI) è entrato nell’immaginario collettivo come uno dei più bei miti della devozione popolare medievale.
Il Santo d’Assisi vi è presentato come prototipo dell’innocenza, del candore che sa affrontare le più temibili prove con l’incrollabile fede dell’ innocente che non conosce il male, semplicemente perché il male non è mai entrato nella sua anima. Immune lui stesso dal male, il vero innocente non può neppure immaginare che altre anime ne possano essere schiave. Egli somiglia al bambino che avendo conosciuto solo il suo lupetto col quale ha sempre giocato “alla pari”, si avvicina con la stessa fiducia al rottweiler che non conosce, rischiando di farsi dilaniare dai suoi terribili denti.
Solo che, usciti così repentinamente dal mito e trasferiti nella realtà di cui ci parla Politi, noi stessi ci sentiamo colti dall’inquietudine al pensiero che il Francesco di cui qui si parla non è il Santo d’Assisi, ma colui che forse è il più amato e acclamato fra i papi del nostro e forse di tutti i tempi (almeno per ciò che si riferisce al loro primo anno di pontificato).
Un papa che tutto il mondo ammira, che guadagna le copertine delle riviste più celebrate del mondo; che qualcuno ha candidato al Premio Nobel per la pace; che manda in visibilio la gente a cui passa davanti sulla sua papamobile scoperta; che distribuisce baci in automatico non appena gli presenti e gli metti in mano un bambino o una bambina o un portatore di handicap o un malato; un papa che tutti amerebbero avere per parroco, o vescovo, o cappellano d’ospedale…
Un uomo così può mai correre il rischio di rimanere solo? Peggio ancora, può mai sentir crescere intorno a sé l’ostilità, la sfiducia, l’opposizione di chi gli sta attorno, magari dei suoi stessi collaboratori, così da doversi guardare non tanto da minacce fisiche, quanto probabilmente da intrighi e manovre sotterranee, tese a minarne la stabilità e la sicurezza di navigazione nel suo governo della Chiesa?
Per ora Marco Politi parla di «grande inerzia nelle strutture ecclesiastiche» dovuta al fatto che esse si vengono a trovare «davanti a una personalità che si rivela assai più complessa e difficile da capire, dotata di qualità e limiti che contrastano sia le entusiastiche valutazioni iniziali che le irritate stroncature». Egli avanza allora l’ipotesi che molto probabilmente non tutti i cardinali che gli hanno dato il voto in conclave conoscessero davvero la personalità complessa dell’arcivescovo di Buenos Aires: «una personalità di pastore tutt’altro che politicamente disarmata, ma abile nel muoversi in una società complessa, civile e clericale».
«Un uomo di comando», così veniva giudicato e ritenuto l’arcivescovo Bergoglio a Buenos Aires, un giudizio che lo stesso papa Francesco condivide quando, parlando di sé, dice che in passato veniva considerato come uomo autoritario perché incline a decidere da sé e piuttosto affrettatamente, difetto da cui ha detto anche di voler fare di tutto per emendarsi.
Ora che quella specie di luna di miele che viene sempre concessa a ogni nuovo capo di Stato o di governo (e ogni papa è al tempo stesso capo di Stato e di governo), sembra avviarsi al suo tramonto, Francesco incomincerebbe a valutare se per caso non si sia fidato troppo del favore dimostratogli all’inizio. Intanto sembrano manifestarsi i primi segnali di una specie di fronda interna, da parte dei suoi stessi elettori, i quali incomincerebbero ormai a cercare il pelo nell’uovo sia per ciò che riguarda i grandi temi dottrinali (sui quali qualcuno incomincia a segnalare i limiti del nuovo papa), sia sulle manifestazioni di intenti (restituire a tutti, anche ai divorziati risposati, il diritto di accesso all’Eucaristia), sia la ora qua ora là rinascente controversia sui famigerati valori non negoziabili su cui la Chiesa italiana ha tanto investito, rischiato, e alla fine pagato pegno durante il ventennio ruiniano (in Italia si procede sempre per ventenni!), anche se, naturalmente, con la benedizione prima di Giovanni Paolo II, poi di Benedetto XVI.
È facile immaginare la difficoltà che la componente italiana della Curia Romana incontra ad accettare questa rivoluzione. Le posizioni di Francesco sul battesimo da concedere a tutti coloro che lo chiedono , sulla comunione anche agli irregolari del matrimonio, sulla prevalenza e sulla superiorità della misericordia sulla lettera della legge, sull’atteggiamento assai più misericordioso che severo verso il peccatore e sulla necessità che la Chiesa sappia farsi maestra di misericordia verso tutti, non si può certo dire che abbiano sempre prevalso nella linea pastorale della Santa Sede e della sacra Congregazione per la dottrina della fede.
Che poi la componente italiana del collegio cardinalizio, tuttora numericamente importante e assai influente, miri a ricompattare le file e a riconquistare le posizioni di potere perdute, non potrebbe meravigliare nessuno. È proprio da questa ovvietà che vorrei partire per arrivare alla conclusione del mio pensiero e del mio discorso.
Tutto ciò fa parte del gioco: il potere, quando non è visto come servizio (come ricordava papa Francesco a tutti i cardinali, vecchi e nuovi nel suo recentissimo primo concistoro), è per sé stesso inesorabilmente autoreferenziale e autoconservativo. Le coscienze faranno presto a trovare una nobile autogiustificazione: noi lavoriamo per il bene della Chiesa, che è minacciata, sicuramente in buona fede, dalle poco accorte scelte del nuovo papa. Ricordo bene una voce che correva fra i padri conciliari del Vaticano II: «Non basteranno tre generazioni per riparare i danni che papa Giovanni XXIII ha arrecato alla Chiesa».
È la difficile parte e l’amara sorte riservata ai profeti e ai pionieri. Non discuto la buona fede, ma bisogna riconoscere che è una buona fede a servizio delle passioni umane. È la stessa buona fede che ha mosso la mano dell’autore del messaggio di congratulazioni e d’augurio fatto pervenire al card. Scola per la sua fantomatica elezione a sommo pontefice nell’ultimo conclave. Come meravigliarsi che quella meschina figura bruci ancora? E come meravigliarsi se la coscienza di chi ne è rimasto scottato cerca ora una riabilitazione? E quale può essere l’unica riabilitazione possibile? Solo qualcosa che somigli a questa: Francesco è un sant’uomo, ma non è, così come è ora, del tutto all’altezza del suo compito; gli manca una solida cultura teologica e una più sofisticata esperienza di governo della Chiesa universale; dobbiamo vegliare su di lui: frenarlo, indirizzarlo, consigliarlo, illuminarlo, sostenerlo, guidarlo. Questo ci chiede il buon Dio e questo ci impone il nostro ruolo di cardinali, in quanto senato della Chiesa.
Che dire? Non resta che pregare per lui, per papa Francesco voglio dire. Cardinali secondo il suo spirito non mancano. Altri magari ce ne sono che vorrebbero proteggerlo da sé stesso. Che Dio lo custodisca da questi angeli custodi.
La solitudine è la sorgente di ogni pioniere
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