Quando il troppo storpia: pensieri crepuscolari


Qualcuno dei miei lettori forse si ricorderà che domenica scorsa parlavo della mia “Messa d’oro”, cioè del mio 50° di ordinazione presbiterale. Ne parlavo con gioia, con un senso di profonda gratitudine a Chi mi aveva dato abbastanza tempo di vita per veder risorgere la “divina speranza” dalle ceneri di quelle che erano state le tante speranze deluse della mia giovinezza.
Le avevo viste tramontare a una a una, e mi aveva fatto tanto male cantare la nenia funebre su ciascuna di esse. Sì che a certo punto le avevo credute tutte morte.
Poi, quando proprio sembrò che la mia stessa sopravvivenza fosse ormai diventata un peso insopportabile sì che morire non sarebbe più stata una perdita, tutto tornò a risplendere di vita e di speranza.
La scienza aveva sconfitto in me la morte: era bastato buttar via un pezzo di me, il mio fegato, perché tutto tornasse a sorridere, a rifiorire. La primavera tornava a essere un simbolo positivo: dopo ogni inverno ci sarà ancora una primavera, dopo ogni tempesta tornerà il sereno, a ogni tsunami seguirà una ricostruzione, e se le croci nel cimitero si saranno infoltite, anche i nastri rosa e celeste torneranno a essere appesi alle porte o ai balconi delle case degli uomini.
Un fegato nuovo come una nuova mano di carte che la Provvidenza mi passava per giocarla al poker della vita. Accompagnate da una sola parola: sono carte buone, giocale bene.
Ho cercato e sto cercando di fare del mio meglio. Qualche risultato, discreto, s’è già visto; altri sono per strada. Altri ancora verranno un po’ più avanti. Finché Dio vorrà darmi forza, testa, amore, coraggio. E vita. Finché Dio vorrà. Che quando lui mi manderà a chiamare io possa essere pronto a dirgli: Eccomi, Signore, vengo.
Spero solo che in quel momento Lui non abbia fretta! Troppa fretta, voglio dire. Vorrei mi lasciasse il tempo per guardare Sorella Morte negli occhi per poterle dare il benvenuto, e dirle: “lasciami solo il tempo per dire addio a tutti quelli che mi sono stati cari, ai vivi prima e poi ai morti; un commiato dai primi, un “sto arrivando” ai secondi. Sperando solo che la partenza non si faccia spettare troppo. Giusto il tempo per un addio rapido e intenso, dove mestizia e dolcezza si dosino a perfezione come l’agro e il dolce in certe pietanze della buona cucina cinese.
Come mai questi pensieri che potranno sorprendere più d’uno fra coloro che han visto qualcosa di ciò che mi è accaduto fra sabato e domenica scorsi? Semplice e schiva quanto si è potuto la festa, ma bella e intensa nella sua estrema sobrietà. Cos’è sopravvenuto allora, per lasciar posto a pensieri di tal fatta e natura?
Chi mi conosce sa bene che essi non sono insoliti in me, e che da sempre convivo bene con essi, che anzi mi sono perfino cari e che mi aiutano a vivere sereno, mai affannato, mai di corsa, mai soffocato dall’ansia, mai sopraffatto dalla fretta.
Tuttavia una ragione precisa a questi pensieri, stavolta c’è stata: la lettura, rimandata di qualche settimana per mancanza di tempo, d’un articolo di Franco Marcoaldi su laRepubblica del 17 febbraio u.s., sul tema del prolungamento della vita nel nostro tempo e dei problemi che ne derivano per l’individuo e per la società dei nostri giorni. Nell’articolo, rifacendosi ad alcuni testi apparsi negli ultimi tempi, il giornalista ne ha parlato con il filosofo Salvatore Natoli, anagraficamente un mio quasi coetaneo, e dunque come me nel pieno dell’età nella quale questi problemi smettono d’essere un esercizio accademico per diventare e trasformarsi in un reale problema esistenziale.
Vivere troppo è il titolo dell’articolo, e sua intenzione è provocare a una presa di coscienza del fatto che la vita contemporanea sta sovvertendo tutte le categorie fin qui riconosciute sulla vita e in particolare sulla vecchiaia.
Dirò le cose brutalmente, perché non ho uno spazio illimitato: oggi siamo tutti (o quasi) a rischio di vivere troppo! Che vuol dire? Che senso ha dire vivere troppo? Si può mai dire che uno è vissuto troppo? Non è la vita, qualunque sia la tua Lebensanschauung, la tua visione della vita, il valore supremo su tutto? Non è, in particolare per chi ha il dono della fede cristiana, il primo e più importante dono di Dio? Secondo questa fede la difesa della vita non è in alcun modo riducibile alle sole parti produttive o godibili o fruibili della vita stessa. Tutto nella vita è dono preziosissimo di Dio! Anche la sofferenza? Anzi, soprattutto la sofferenza! come partecipazione al mistero delle croce di Cristo.
Secondo questa fede dobbiamo riconoscere il Christus passus in chiunque – miserabile, denutrito, sfruttato, perseguitato, torturato, maltrattato in carcere o nei campi di concentramento o negli ospizi dove il personale di assistenza si lascia trasformare dalla noia e dal disgusto in veri e propri torturatori che trattano quei poveretti come occasione di crudele passatempo di sevizia gratuita, di crudeltà infame. E come non sentire davanti a tutto questo un senso di rifiuto e di ribellione?
Ecco allora con quale sentimento mi appresto a vivere questi ultimi anni della mia vita terrena, di questo dono grande di cui ringrazio di Dio, perché mi ha dato di vedere il compimento di tante speranze nelle quali non speravo più. Sarò chiaro e non farò sconti di sorta. Al vecchio la sincerità e la parresia sono parimenti concesse: c’è dentro tutta la sua storia e tutta la saggezza (quando c’è) della storia di cui egli stesso è stato in parte testimone e in parte artefice.
Ebbene questa è la mia confessione di 75enne: oggi non ho più nessuna nostalgia di futuro (fu il titolo di un mio articolo degli ultimi anni ’70).
Oggi il genere umano mi fa più paura che gioia: oggi si vorrebbe che si stesse avverando la profezia di Giosuè Carducci in quella specie di ditirambo (lett. inno da cantare in coro sotto l’effetto del vino) che è l’inno a Satana, dove Satana stava per progresso? Poté apparire quasi blasfema, ma era quasi commovente nella sua innocenza di professione di fede nel progresso e nel futuro, in quelle magnifiche sorti e progressive sulle quali aveva invece ironizzato il ben più pensoso e profondo Giacomo Leopardi, e che lo stesso Vate d’Italia aveva raffigurato simbolicamente nel treno in corsa, sbuffante sulla campagna Davanti San Guido.
Oggi invece Satana ha un altro nome, anch’esso d’origine ebraica, ma assai più triste e tragico: Mammona (mamon: aramaico, radice mn, sicuro, durevole, su cui si può far conto) che nella sua stessa etimologia è già una professione di fede: io credo nella iniqua ricchezza (comunque procurata), unico bene sicuro su cui posso far conto.

Freddo e senza cuore come ogni metallo, l’oro è certamente l’arma più micidiale che la storia umana abbia mai saputo inventare. Nelle sue varie forme e nei suoi diversi nomi, l’oro (o denaro) è certamente l’idolo al quale si sono offerti le più numerose e diverse vittime sacrificali: vite umane, giustizia, pace, equità, sicurezza sociale e tutto ciò che nobilita la nostra vita e la storia delle civiltà. In questo mondo, ormai completamente prostituito a questo ributtante idolo di sangue io non mi ritrovo. Oggi non ho più nostalgia di futuro, che non potrà comunque non somigliare all’uomo. Oggi ho solo nostalgia di cielo, dove è nascosta la mia nuova patria, dove c’è tanta gente che mi aspetta e che desidero tanto rivedere. Una preghiera sola: quando sarà il mio turno, aprite subito la gabbia: lasciatemi tornare a casa!

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