Aveva cominciato col dirmi, pensando alla carriera: «Vedrai, li ritroverai domani… Soltanto un paio d’anni. Due… tre al massimo. Passano presto» (mons. Antonio Fedeli, vicario generale).
Ne sono passati cinquanta. E tutti nello stesso posto. A Casalina. Fatale villaggio (Villa la dicevano allora) degli Homines Franchi.
Così avevano appreso a firmarsi quei disperati villani, gente che abitava in una villa, un gruppetto di povere case in un piccolo castello di confine tra Perugia e Todi, su un’importante strada romana (già Via Flaminia, più tardi Via Tiberina) in aperta campagna, bagnata a poche centinaia di metri, dal Tevere, il fiume sacro a Roma.
Villa dunque (villaggio) non civitas (città). La differenza? La prima era abitata dai servi della gleba (terra), gente legata alla terra in modo tanto stretto che chi vendeva la terra vendeva anche la sua gente, e chi la comprava, comprava con essa, anche la sua gente. Ecco perché servi, perché cose in proprietà dei padroni, contro la civitas dove vivono gli uomini liberi, franchi, secondo il detto l’aria della città rende libero chi la respira.
Nel 1270 Casalina fu tra le prime comunità in Italia e in Europa a ottenere l’ambitissimo titolo di Villa de’franchi, degli uomini liberi, come presero a firmarsi gli Homines franchi de Casalina. Quanto orgoglio in quell’Homines franchi!
L’ultimo testimone orale di quella tradizione ha fatto in tempo a parlarmene prima di morire. Da allora Casalina ha preso a riappropriarsi della sua storia. Mi sentii subito nel mio ambiente, io che tenevo alla mia libertà sopra ogni cosa al mondo (che non fosse la mia fede).
Quando mi dissero “vuoi andare a Casalina a fare il parroco?” nulla sapevo di Casalina e della sua storia, né antica né recente: così fu subito tutto una sorpresa. E mi piacque subito. Allora tutta la sua vita era ordinata e regolata sugli orari, gli stipendi e i lavori della Fondazione per l’Istruzione Agraria di Perugia. Oggi di quella benemerita istituzione perugina restano solo il nome e le rovine. Ne resta in me, col ricordo, il rimpianto per il buon lavoro che s’è fatto insieme per il progresso della nostra gente, con piena e reciproca soddisfazione. Altri tempi, ahimè!
Dunque fu Casalina. E fu per sempre. E doveva essere per due o tre anni.
Cos’era accaduto nel frattempo? Perché è chiaro che qualcosa doveva essere accaduto se le cose erano cambiate da così a così nel breve volgere di pochi anni.
Era accaduto che nel frattempo io avevo commesso un’ imprudenza. Una grave imprudenza. Avevo pubblicato qualcosa che non avrei dovuto mai pubblicare. Un libretto. Minuscolo, di sole 133 paginette. Da leggere tutto d’un fiato. C’è chi lo ha letto in una notte. Accattivante. Ben scritto, hanno detto in molti. Commovente in alcuni punti. Irritante in altri. Coraggioso. Ecco sì, questo fu il suo peccato. L’editore, Borla, m’aveva messo in guardia: «I tempi sono cambiati. Paolo VI è morto. Il nuovo papa (Giovanni Paolo II) non ama certe aperture. Potrebbe pentirsene» mi disse. Risposi che lo avevo messo in conto. Fosse stato per lui, forse non l’avrebbe stampato, ma a raccomandarglielo era il grande Ernesto Balducci: come dirgli di no?
Quanto a me, precisai che la mia era una scommessa con la sorte: «Se andrà tutto bene, vorrà dire che il mio libro è tutto sbagliato. Se mi andrà male, vorrà dire che ho ragione su tutto». Andò male. Dunque…
La prima copia che ebbi in mano, volli consegnarla di persona al mio arcivescovo, già mio professore di morale al Laterano. Mi stimava molto. Mi aveva presentato a Jean Guitton,con il quale era nata una grande e bella amicizia. Quando fu scelto come arcivescovo di Perugia, Lambruschini disse subito che mi voleva come suo segretario. Odiavo quel lavoro e i miei professori mi avevano raccomandato di non accettare. Ma non volevo disobbedire e dissi sì. Mi salvò proprio “il clero perugino” (sic!) il quale gli fece sapere che io non ero loro gradito. Avendo vissuto dieci anni a Roma, nessuno poteva dire di conoscermi veramente. Ma venivo da Roma, dunque! Li ringraziai di cuore. Anche i miei professori ne furono felici: avrei potuto dedicarmi allo studio e all’insegnamento. Così fui destinato all’università di Casalina. A vita. Non c’è male come carriera accademica, no?
L’insegnamento, quello accademico, arrivò più tardi: molto più tardi. Dieci anni dopo ad Assisi, ancora una decina e fu la volta di Roma, in diverse università e facoltà teologiche. Non fu mai insegnamento a tempo pieno. Grazie a Dio, devo dire. Ne ha guadagnato il mio linguaggio teologico e il mio rapporto con il mondo reale.
Nell’insegnamento grossissime difficoltà non ne ho trovate. Qualche sospettuccio di eccessiva libertà di pensiero e di parola non è mancato. Ma son potuto arrivare indenne sino alla fine. Non fu poco.
Ma ora è giusto che io parli della mia parrocchia, perché proprio questa fu, per tutta la vita, la mia vera croce e delizia. O in un linguaggio meno melodrammatico e più biblico, la mia parte di eredità e mio calice (Sal 16, 5).
Casalina è stata per me davvero il mio tutto, anche se ho impiegato almeno 49 anni ad accettare la verità di questa bestemmia. Solo in questo ultimo anno forse, mi sono rassegnato a restare legato alla minuscola storia di questi pochi chilometri quadrati della media valle del Tevere come il parroco di Casalina. Qui ho trovato però le mie gioie, anche umane, più grandi e più vere, le mie croci più dolorose e le mie paure più profonde, come pure alcune delle mie amicizie più care, le contrapposizioni più tenaci e più aspre, le mie vittorie più ambite e le mie sconfitte più cocenti. Qui ho molto amato e sono stato molto amato, ho peccato molto in pensieri opere e omissioni (un po’ meno, credo, in parole) e ho conosciuto (è cosa di queste ultimissime settimane) la grazia più esaltante: la certezza di sapere che Dio non solo mi ha perdonato, ma di ogni mio peccato ha saputo fare, o trarne, un dono e una grazia a mio vantaggio.
Non si tratta di farneticazioni, ma della pura verità. E sebbene queste cose io le abbia sempre predicate e insegnate dal pulpito e dalla cattedra, solo in questi ultimi mesi, o forse proprio in questi ultimi giorni io ne sono stato beneficato al punto da poter dire che tutta la mia vita e la mia stessa preghiera ne sta risultando cambiata.
Sì, perché è proprio da circa un anno che va maturando in me qualcosa che proprio in queste ultime settimane sta trovando la sua definizione più esatta nella mia mente e nel mio cuore: è l’esperienza del fatto che tutto ciò che in questi ultimi mesi sta avvenendo in me o intorno a me, non sarebbe stato possibile se io non avessi percorso le strade che ho percorso, non avessi conosciuto le tenebre che ho conosciuto, se non avessi pianto tutte le lacrime che ho pianto, se non avessi riso per tutte le gioie che mi sono state donate, se non avessi fatto gli sbagli che ho fatto e dai quali ho sempre potuto risorgere; se non avessi avuto il coraggio (o l’incoscienza) che ho avuto.
Se tutto questo non fosse stato io non sarei quello che sono e non scriverei ora ciò che sto scrivendo: piaccia o non piaccia, io sono il risultato di tutto questo guazzabuglio che è stata la mia vita, con le mie fughe e i miei ritorni, le mie corse in avanti e i miei prudenti passi indietro, con tutto l’amore che ho dato e quello che ho ricevuto, con tutte le parole buone che ho detto e che mi sono state rivolte.
Dio, Dio misericordioso, quanto puoi essere grande e paziente con chi ti ama!
Ma non ho ancora finito. C’ è ancora un punto da toccare. Importantissimo. Essenziale.
Dunque: 50 è esattamente il doppio di 25, o no? E in genere chi ricorda e magari festeggia il cinquantesimo di qualcosa, ha già festeggiato anche il venticinquesimo della stessa cosa (per esempio di un matrimonio). Sta di fatto che per me è andata proprio così.
Ma solo Dio sa quanto le due cose saranno state alla fine diverse nella mia anima. Quello, il venticinquesimo, cadeva nel cuore del momento più duro e più difficile della mia vita in parrocchia: una profonda dolorosissima spaccatura in parrocchia aveva trasformato la mia lunghissima luna di miele durata ben diciotto anni, in un’amarissima luna di fiele che di anni ne sarebbe durata ventidue.
Come gli ebrei sulle rive dell’Eufrate durante la deportazione del popolo ebreo nella Mesopotamia di Nabucodonosor, avevo appeso anch’io la mia cetra ai salici piangenti ricordando le tante speranze perdute e i tanti freschi propositi appassiti anzitempo alle sorgenti ormai secche della sfiorita giovinezza.
Cosa potevo festeggiare in quelle mie dolorose condizioni? Sicché chiesi al profeta Geremia le parole per poter dire tutto ciò che avrei voluto dire io, ma non avrei potuto farlo senza creare scandalo. Allora dissi a lui “Geremia, profeta, parla tu per me!”. E lui parlò e non tacque, e parlò: «Tu mi hai sedotto Jahveh, e io mi sono lasciato sedurre; sei stato più forte di me, e hai prevalso» (Ger 20,7). Era al tempo stesso un atto d’accusa e un altissimo, disperato grido d’aiuto.
Ancora vent’anni durò quella notte della mia anima, e alla fine passò. Ricordo quel giorno, anzi quella sera sull’annottare. Era il 12 ottobre del 2009, quarantesimo anniversario del mio approdo a Casalina. Fu festa vera quella sera, il segno che la bufera era passata. Da allora giusto qualche brontolio di tuono lontano, ma nulla più. Quella bonaccia, anzi no, quella vera quiete dopo la tempesta non è stata più né minacciata né tanto meno interrotta. E dura ancora. Nella certezza che tutto fu dono: la gioia e il dolore, l’amore e i contrasti, la grazia e il peccato, i successi e i fallimenti…e tutto… tutto!
È di questo dono che io rendo oggi grazie al «Datore di ogni dono perfetto» (Gc 1,17), invitando tutti quelli che mi leggeranno o mi ascolteranno, a unirsi al mio ringraziamento e alla mia lode. Allora la mia miseria sarà la mia ricchezza. E la mia povertà potrà far ricco qualcun altro.
Se 50 vi sembrano pochi, non vi resta che provare
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