Leggo su laRepubblica di stamane, sabato 18 gennaio 14, in un articolo dal titolo Sciascia e Dio, un prezioso inedito di Leonardo Sciascia, queste precise parole che mi riportano a ciò che io scrissi nel mio articolo del 6 gennaio scorso, nel quale riconoscevo al pensiero dell’ultimo Eugenio Scalfari un sottofondo cristiano che il grande giornalista è andato coltivando negli ultimi anni, prima con la frequentazione di Carlo Maria Martini, ora con papa Francesco.
Scrive dunque Leonardo Sciascia, parlando di Giuseppe Rensi «filosofo scettico, autore di una apologia dell’ateismo» sul quale egli così si esprimeva: «Ed era un uomo, Rensi, di limpida e cristianissima vita, di limpido, libero e coraggioso sentire e dire, anche negli anni del fascismo, da cui ebbe persecuzioni».
E dopo aver detto di questo apologista dell’ateismo di cristianissima vita, Sciascia passa a parlare di sé: «…e posso dire che per me che mi sento cristiano, checché ne dicano i preti, i libri di Rensi sono stati una confermazione del mio essere cristiano; e non a caso uso la parola confermazione: la uso appunto come sinonimo di cresima; il mio battesimo è stato Victor Hugo e la mia cresima Giuseppe Rensi. E devo dire che quel tanto di cristiano che c’è nel mondo occidentale, lo si deve più a Victor Hugo che al catechismo». E continua sullo stesso registro: «Ecco, questo scettico Giuseppe Rensi, io non lo direi ateo, nonostante la sua apologia dell’ateismo, nonostante il suo testamento che però alle parole “atomi” e “vuoto” aggiunge “è il divino in me».
Lo scritto di Sciascia continua tentando un’operazione ancor più coraggiosa: riconoscere questo stesso fondo di cristianesimo laico anche a Pirandello e a una corrente del pensiero moderno, là dove la forma più deleteria e perniciosa di ateismo viene riconosciuta nella visione utilitaristica di Dio, in un Dio che può venir “propiziato con doni e offerte” (Nicola Abbagnano, riferendo il pensiero di Platone). In confronto con questa sofisticata forma di paganesimo, le altre due forme (la semplice negazione della divinità e l’idea d’una divinità che si disinteressa delle cose del mondo, sono in realtà assai meno pericolose.
Basta così sull’articolo di Sciascia, ma mi pareva, che dopo il mio articolo di 14 giorni fa, valesse assolutamente la pena di spenderci alcune parole.
Pirandello, Rensi, Sciascia: uomini tutti appartenenti a uno stesso filone di pensiero, ciascuno con i suoi punti di vista personali, più o meno accentuati, più o meno marcati. Tutti d’accordo nel non ritrovarsi nel “Dio del catechismo”, ma tutti ugualmente d’accordo nel ritrovarsi nel filone cattolico della grande cultura europea, da Montaigne a Cartesio, da Voltaire a Hugo, da Leopardi a Pirandello…
Il minimo comun divisore? Lui, l’Uomo di Nazaret, il Gesù figlio dell’uomo, di cui s’è dichiarato innamorato anche Eugenio Scalfari.
C’è chi si ricorda lo Scalfari di quarant’anni fa (l’anno prossimo laRepubblica farà giusto 40 anni)? Dio vi veniva quasi sempre scritto in minuscolo, gli articoli di carattere religioso erano rarissimi e quasi sempre legati a importanti fatti di cronaca. Ricordo che il suo storico vaticanista Luigi Accattoli, una volta che un suo amico si era rivolto a lui per chiedere una breve recensione a un mio piccolo libro, ci rispose che su tutto ciò che riguardava la religione, lui, come vaticanista, non aveva nessuna autonomia. Tutto era demandato alla direzione, e se non eri famoso almeno quanto Gianni Baget Bozzo non avevi nessuna speranza di arrivare da nessuna parte. Oggi laRepubblica raramente esce senza una notizia di cronaca religiosa, e dedica molta attenzione a papa Francesco. Certo oggi c’è Ezio Mauro (che non è certo meno laico di Scalfari), ma papa Francesco son pochi i giorni che non s’affaccia da quelle pagine.
Può significare qualcosa tutto questo? Io sono convinto di sì.
Tanto più ché sulla cattedra di Pietro oggi siede un uomo profondamente evangelico per spirito e per stile di vita. L’uomo che potrà far ritrovare alla chiesa del XXI secolo e fors’anche dell’intero III Millennio lo spirito delle origini del Vangelo. Quello spirito dal quale già da troppo tempo ha preso ad allontanarsi con un lungo doloroso processo di disaffezione, perché intanto s’era accorto che non era più lo spirito delle sorgenti ad animare la Chiesa, ma un altro spirito, anzi un vero demone ci si era insinuato: quello del potere, della ricchezza, dell’orgoglio, della vanità.
Ecco perché mi è stato di consolazione ritrovare nel laico Sciascia questa consonanza con il laico Scalfari, mio fratello postcattolico come l’avevo chiamato, titolando 14 giorni fa il mio articolo dell’epifania.
Postcattolico, non postcristiano, perché essi dichiarano di riconoscersi entrambi in questo movimento spirituale che attraversa i secoli e che rimane e permane al di là di tutte le difficoltà e le obiezioni che il pensiero delle diverse stagioni culturali possono opporre al pensiero religioso.
Potrei anche cavarmela così, ma sarebbe troppo poco. Io debbo una risposta a chi mi ponesse la seguente domanda: perché dunque continuare a sprecare una parola di grande tradizione come cattolico se basterebbe e avanzerebbe la parola cristiano, con tutti i vantaggi che ne conseguirebbero?
La mia risposta è questa, provvisoriamente incompleta magari, ma indicativamente plausibile.
Perché dire io credo o dire io non credo in Dio, io sono ateo o io sono teista è solo la conclusione di un complesso ragionamento non certo riproducibile qui e ora.
Il quella due-tre parole io credo, io non credo c’è tutta la storia non solo d’una vita, ma d’una famiglia, d’una comunità, d’una scuola, d’una società, d’una civiltà che è sì, se si vuole, anche abbastanza uguale o omogenea alla sorgente, ma quando arriva al rubinetto della mia bocca e della mia voce, quella stessa eredità è passata attraverso migliaia di filtri, che possono essere essi stessi e per loro stessi puri o inquinati, facilmente attraversabili o più o meno intasati, depuranti o inquinanti per sé stessi.
È così che quel binomio io credo può arrivare a essere non solo una dichiarazione di fede, ma un canto di vittoria, un peana di trionfo.
È quello che papa Francesco chiede oggi a tutti i credenti: siate testimoni, non vi accontentate di credere, ma gridate la vostra fede al mondo e testimoniatela nella vostra vita.
E chi non potrà dire, come noi diciamo, credo in Gesù figlio di Dio e dell’uomo, ma dovrà fermarsi al Gesù figlio dell’uomo, possa almeno gridare io amo Gesù di Nazaret, figlio di Maria e figlio dell’uomo e nelle sue parole e nel suo insegnamento morale e nella sua visione spirituale mi ritrovo, perché davvero di quell’umanissimo Gesù io mi riconosco e mi sento fratello. E di tutti quelli che in quell’amore si riconoscono, non importa quale sia la metafisica che essi professano, io sarò disposto a professarmi fratello.
Allora sarà possibile inventare un altro modo di professarsi cristiani, più o meno qualcosa del genere: Io amo Gesù di Nazaret e nella sua parola mi riconosco. E chiunque condivide quest’amore mi sarà «fratello e sorella e madre» (Mt 12,50). Su tutto ciò che va oltre questa elementare parola ognuno sarà libero di pensarla come meglio credono e possono. Quanto a me, continuerò a credere in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo.
Ai miei fratelli cristiani postcattolici
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