Addìo 2013: la chiesa non ti dimenticherà

2013 goodbye! Ti ricorderemo volentieri, noi cristiani cattolici, e forse non solo noi cattolici. Forse anche tutti i cristiani di buona volontà, di qualunque confessione essi siano. Per una cosa soprattutto: per averci dato, nuova speranza con papa Francesco.
Francesco è oggi per la Chiesa, forse per tutte le Chiese, una strada sulla quale tutti possono convenire e camminare insieme. Una strada che conduce diritta al Cristo. Quello vero. Misericordioso. Umile. Povero. Al Gesù di Nazaret, insomma.
Fateci caso: quest’uomo non ha proprio poco del papa. Gli manca tutto. Compreso il fisique du rôle. Non ne ha il passo, l’andamento, la postura. Né del papa re, alla Clemente IX; né del papa sommo pontefice, alla Pio XII, per intenderci. E neppure alla Giovanni Paolo II. Il suo passo è alla buona, mai eretto, piuttosto chino in avanti anche quando cammina. Un buon parroco cammina come lui. Starebbe bene anche a Casalina. Oppure in cattedrale.
Non vuole segretari attorno. Niente macchine da corpo diplomatico. Un’utilitaria va più che bene per lui. E se non la guida lui stesso, è solo perché vuole occhi e mani liberi per guardare e salutare chi lo saluta.
Il palazzo apostolico? Troppo grande. E quasi tetro, lassù, pur così vicino a Dio. Meglio scendere. Più vicino agli umani. Una modesta suite a Santa Marta va benissimo. La messa quotidiana? Niente cappella Redemptoris Mater di Giovanni Paolo II: quei colori urlati dei dispersivi mosaici di moderna scuola, gli guastano il raccoglimento. Molto meglio la più raccolta cappella di Santa Marta.
Quello che conta per Francesco è solo il fare, e lui, le cose è abituato a farle sul serio. L’Europa è devastata dalla crisi economica più dura del dopo guerra? I segnali dal resto del mondo sono sconfortanti? La fine delle ideologie e delle soteriologie costruite da e su ciarlatani a volte comici, altre volte tragici? Le cose non sono andate meglio.
Davanti a tutto questo lui, Francesco non ha che una ricetta da proporre, sempre la stessa: Gesù Cristo è il suo nome, Signore e Redentore i suoi attributi. Oltre Gesù, egli non conosce altro.
Il suo è un Gesù misericordioso, però esigente: perdona volentieri i peccatori, ma con in suoi discepoli è esigente. Consapevole dei gusti del Maestro, egli ha ingaggiato una battaglia senza quartiere a chi, all’interno delle mura paoline, sembra lavorare perché tutto resti come era. Egli però è convinto che il Gattopardo non può abitare in Vaticano. Se ciò crea un po’ di maretta nei Sacri Palazzi, si consola che il mondo è tutto con lui. Da quando c’è lui la credibilità della Chiesa ha guadagnato 10 punti percentuali (Ilvo Diamanti, su laRepubblica del 30.12.’13).
Guardate la TV: ai papaboys è subentrato il papapeople, il popolo la gente del papa. Ogni domenica e ogni mercoledì Piazza San Pietro non basta più a contenere la folla. Anche Piazza Pio XII è quasi sempre gremita. Alla gente piace così, e ricambia in questo modo la rinuncia del papa alle vacanze a Castelgandolfo con il suo parco e la piscina olimpica; figurarsi poi a quelle all’Adamello, o in Val d’Aosta. Non li ha lasciati soli neanche a ferragosto! Lui dice solo che ci’à ben altro da fare, con tutta la gente che gli scrive, che gli telefona (a cui cerca di rispondere come può), con tutti i bambini che gli allungano perché lui li prenda in braccio, li benedica li accarezzi e li baci. Un fenomeno che interessa anche l’economia nazionale: i rivenditori di souvenir, i trasporti pubblici, i ristoratori ringraziano: una vera boccata d’ossigeno per la tanto sperata ripresa.
Tutto questo ha saputo fare, in solo dieci mesi scarsi, il Francesco biancovestito; e possiamo esserne certi, siamo solo all’inizio.
Onore e grazie a Francesco dunque, che di questo miracolo è stato artefice e strumento nelle mani di Dio.
Ma il ringraziamento a Francesco non può bastare. Se mi fermassi qui sarei o miope o ingiusto. Non si può dimenticare l’altro protagonista, assolutamente essenziale nell’economia dell’intera vicenda. Il suo nome è Benedetto, XVI di questo nome, grande teologo e “piccolo papa”, ma con un finale strepitoso che gli varrà di diventare uno dei pochissimi papi, sui 266 della serie, di cui tutti, o quasi tutti, ricorderanno il nome, assieme al gesto che gli assicurerà eterna memoria.
Joseph Ratzinger, un amabilissimo cardinale al cui nome “tremava tutta Roma”. Per lo meno tutti quelli che con Roma avevano a che fare per posizione comunque ecclesiale (vescovi, teologi, scrittori, predicatori, liturgisti ecc.). Qualcosa ne han saputo (fra gli altri) Hans Küng e Leonard Boff, svizzero il primo, brasiliano il secondo, l’uno e l’altro privati, dal prefetto di ferro, della cattedra e del titolo di teologi cattolici a causa delle loro idee, dei loro scritti e del loro magistero universitario.
Giovanissimo teologo, stella nascente e molto luminosa nel panorama conciliare, professore a Tubinga da dove fuggì spaventato dalla montante contestazione sessantottina, prima collega e sodale, poi grande rivale dell’altro grande astro nascente, il già citato Küng, Ratzinger fu prima chiamato da Paolo VI a reggere l’archidiocesi di Monaco di Baviera (1977), poi fu scelto da Giovanni Paolo II a dirigere la più importante delle Congregazioni romane, quella per la dottrina della fede, l’ex temutissimo Sant’Uffizio.
Ventiquattro anni, fra tutto, durò il suo mandato che gli fu trampolino di lancio per il grande balzo sul soglio di Pietro. Era il 19 aprile del 2005 quando vi salì e vi rimase fino al 28 febbraio 2013. Per dare l’annuncio dell’addìo aveva scelto l’11 febbraio, memoria liturgica della Madonna di Lourdes. Il mondo rimase di stucco. Come poteva essere possibile per un papa, malandato quanto volete, ma ben lontano dalle tragiche condizioni dell’ultimo Wojtyla, (chi non lo ricorda appisolato durante i pontificali, la saliva che gli scendeva dagli angoli della bocca, e soprattutto quella drammatica tragica smorfia alla finestra del Sacro Palazzo, quasi un urlo di protesta e di rivolta per la sopravvenuta impossibilità a dire anche solo poche parole, lui che di parole era stato sempre un fiume in piena? A chi ne chiedeva le dimissioni (io fra loro) la risposta era sempre la stessa: “non si scende dalla croce”.
Ed ecco ora un papa, proprio il suo successore, che sulla croce non ci vuole neppure salire: va bene lasciarsi spogliare delle vesti, va bene stendersi sulla croce, va bene offrire braccia e mani, gambe e piedi ai chiodi, va bene anche il braccio del soldato che alza la mazza a colpire il chiodo che gli penetrerà le carni… ma a condizione che intervenga l’angelo a fermargli la mano, come per il sacrificio d’Isacco, e a indicarti l’ariete che prenderà il tuo posto e che morirà per te…
Epperò qui una precisazione s’impone: Benedetto ha lasciato, ma di lui non si potrà dire che fece per viltade il gran rifiuto come Dante scrisse di Celestino V (Inferno III, 60). In lui a prevalere fu il senso di responsabilità e la consapevolezza dei suoi limiti. S’era reso conto che egli non ne sarebbe mai potuto venire a capo. Meglio affidare tutto a Dio: Pensaci tu, Signore! E preferì scomparire. Egli resterà immortale solo per questo. Nessuno dei suoi scritti, gli darà mai tanta gloria. Perché di «vera gloria» si tratta!


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