L’ho chiamato Emozioni – l’unico nome che m’è venuto alla mente – quell’insieme di sensazioni, commozione, meraviglia, stupore, tenerezza, innocenza che si sprigiona dalle immagini, ingenue e sapientissime al tempo stesso, che danno vita, forza, eloquenza e serenità al film Terra mia dello scultore Angelo Frillici (suoi il testo, la voce, il volto le sculture, la passione per il suo lavoro e l’amore per le sue creature – le sue sculture –) e diretto dall’ottimo regista umbro Enrico Bellani, girato fra le colline, i corsi d’acqua e i boschi di Nocera Umbra.
Emozioni, il nome che suggeriva il Lucio Battisti ancora giovane davanti a fatti e momenti di vita che sembrano le più consuete e trascurabili nella vita di ogni giorno, finché non impari a guardarle come miracoli, tutte, le più grandi come le più piccole, finché le vedi come cose di serie, ognuna uguale a ogni altra, oggi come ieri, domani come oggi, la rosa nel mio giardino come quella che è fiorita nel tuo che neppure ci chiediamo più come sia possibile che da quel piccolo seme senza forma e senza peso possa nascere un prodigio di forme, di colore e di profumi come quella rosa che laggiù nel giardino ieri è spuntata senza che io gli abbia fatto festa e che domani sarà appassita senza che io ne avverta il minimo doloroso stupore. Proprio come la neve cade sul mio giardino senza far rumore, cadono nella mia vita a una a una le foglie della mia primavera che volge ormai verso la caduta dell’autunno incombente.
Perché quale miracolo è più grande di quelle forme, sgradevoli anche quando sono belle, tormentate anche nell’estasi dell’orgasmo, gentili anche quando ti parlano di disgregazione e di morte, che non sapresti vedere nel tuo soggiorno e tanto meno nella tua sala da pranzo, meno ancora nella tua camera da letto, per paura che, svegliandoti all’improvviso, possano generarti angoscia e rovinarti il sonno per tutto il resto della notte? E dopo avere visto da quale fossa di fango esse provengono, e quali mani fangose l’hanno plasmate e a quale ingiusto destino le vorresti condannare mettendoli al chiuso in una casa o in un museo, ecco che tutto trova senso e si placa vedendole tornare al loro luogo d’origine, alla terra dalla quale furono tratte, ai fili d’erba e alle foglie cui avevano dato vita quando erano libero fango: quando te le ritrovi davanti tutte insieme nella festa nel bosco o sui prati che avevano nutrito con l’acqua che avevano raccolto con la pioggia dal cielo, perché la pioggia è seme divino caduto a fecondare il grembo di «sora nostra matre terra», perché mai manchi vita al mondo che il Creatore ci ha donato.
Ben vorrei vederne anch’io alcune di quelle facce grettate, quei corpi di piccoli gnomi bonari, di quelle donne che conoscono solo la fatica di vivere, di cavalli che non sanno più correre, spuntare fuori da un cespuglio d’oleandro, da una siepe fra i lamponi, danzare tra le insalate e le zucche, dormire sotto il bacio d’una stella.
Ciò non potrà essere, lo so bene. Una ragione in più per essere grato all’artista che questo regalo ci ha fatto e al regista che ce lo ha saputo proporre sapendo vedere la bellezza oltre la bruttezza del fango indurito, la poesia oltre la materia. In quel momento ho trovato bello perfino pensare che non è poi così tragico sentirmi dire dalla liturgia delle Ceneri: “ricorda uomo che sei fango e fango ritornerai”. Del resto non fu dal fango che Dio creò Adamo, per primo?
Queste parole, che una settimana fa avevo scritto per un personale omaggio a due artisti, umbri come me, mi hanno accompagnato in questi giorni come un pensiero fisso, segreto agli altri ma presentissimo a me stesso, arricchite da qualche altro pensiero che via via chiedeva di trovare accoglienza e spazio per poter raggiungere altri occhi e altri cuori.
Umbri come me, dicevo, dunque come me aperti, e forse più di me attenti alle mille voci segrete della terra, dell’acqua, del vento e delle fronde del bosco…e dell’erba che cresce senza far rumore.
Già: le mille voci di un prato che racconta la storia degli amanti che sopra la sua erba si sono scambiati una promessa che è per sempre e del campo che l’agricoltore ha dissodato e che l’acqua della pioggia ha fecondato, che la terra ha nutrito con i suoi umori e il sole ha benedetto con il suo calore senza il quale nessuna vita sarebbe possibile né su questo ne su alcun altro pianeta.
E le voci del bosco che racconta antiche e nuove leggende, dimenticate dagli umani ma vive fra quelle cortecce, ruvide come ogni pelle invecchiata tra le fatiche e le gioie, gli stenti e le conquiste della vita. Di ogni vita.
E le voci dei ruscelli che li attraversano, ora canterine e melodiose, ora fragorose e irose, ora silenti e placide da sembrare dormienti sotto l’ombra amica dei pioppi, delle querce e degli olmi.
Fra quei giochi di luci e ombre eternamente mobili e cangianti li vedi spuntare, quegli gnometti: amici birichini e dispettosi, giocosi e scontrosi, orridi e deliziosi, bellissimi e bruttissimi, tutti al loro posto, al posto giusto, nella quiete della siesta o nell’eccitazione della danza, nel sonno profondo o nell’attesa della risposta giusta alla loro domanda di senso… misteri a sé stessi e ad ognuno di noi.
Poi ti sfiora il pensiero della loro materia, quella di cui son fatti, da cui sono tratti… la più umile e povera, il fango, quello da cui tutti noi veniamo e quello nel quale tanti di noi amano ancora avvoltolarsi, come ippopotami nel fango degli stagni d’Africa.
Quei gretti che invece Fricilli non risparmia alle sue creature: gretti decisamente brutti eppure bellissimi, inguardabili eppure affascinanti, fastidiosi eppure insostituibili. Non risparmiano nulla: ventri, gambe, bocche, teste, volti, guance, colli, braccia, gambe, piedi, mani…
Poi li vedi ballare, quegli gnomi dalle gambe corte, in una festa a cui son giunti sbucando da ogni parte del bosco, attraversando prati e campi, guadando torrenti e minuscoli corsi d’acqua. Ballano fino a stancarsi, fino ad addormentarsi sull’erba, aspettando che il mattino li svegli. Allora riguadagneranno il loro posto di sempre, fino alla prossima festa.
Qui il discorso dello scultore e del regista si allarga fino a Nocera, alle sue colline e alle sue montagne, alle sue rocche e ai suoi corsi d’acqua, e alle acque per cui Nocera è famosa; e alla vicina Assisi da cui ci giunge la parola e la voce di Frate Francesco che dà lode a Dio per tutte le cose buone che ha saputo donarci: a Francesco, che di là del monte, ai piedi del dirimpettaio Subasio, dorme il suo insonne sonno nel quale non cessa mai di ripetere il suo Laudato sii, o mi Signore per cui la terra si riconcilia con il Cielo.
Sul film di Trillici e Bellani: Terra mia
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