Meraviglioso Francesco! DA 50 anni la chiesa ti aspettava

Folgorati sulla via di Francesco? È probabile, anzi credo proprio di sì. È stato proprio un lampo, un fulmine che ha squarciato un cielo carico di nubi dense, cariche di pioggia, di neve o, peggio ancora, di grandine.
Già perché proprio grandine era, anzi una di quelle grandinate che accadono una volta ogni mezzo secolo o giù di lì, quella che s’era abbattuta sul Vaticano e sulla Chiesa cattolica in generale negli ultimi quindici-vent’anni; una di quelle che ti tramortiscono per la violenza che le scatena e per i danni che provocano.
Grandinate come giudizi di Dio sull’infedeltà degli umani, sul loro parlare per sofismi, per la perversa volontà di potere da cui nascono. Momenti drammatici in cui tutta la malizia che aveva fin lì lavorato sottobanco è costretta a venire alla luce, lasciando costernati e impotenti tutti coloro che avevano creduto alle favole dei venditori di fumo.
Da quella sera in cui Francesco apparve sul balcone delle benedizioni di San Pietro, sono ormai passati quasi esattamente tre mesi: tre mesi di piccoli e grandi colpi di scena, contrassegnati dalle folle oceaniche che riempiono sempre la piazza più famosa del mondo ogni volta che si sa che il papa scenderà fra la “sua” gente, a parlare loro e con loro, a passare fra loro, a stringere loro la mano, a baciarne i bambini, ad accarezzare i disabili, e a salutare, scendendo di slancio dalla papamobile il gruppo di argentini che si fanno da lui riconoscere, o il ragazzo con la maglia della sua squadra del cuore (Francesco era – è ancora? – un acceso tifoso di calcio), a confessare in maniera del tutto inedita, alcuni fedeli della prima parrocchia nella quale è andato a celebrare una messa domenicale.
E sono già tre anche i mesi da lui passati nel convitto di Santa Marta, dove vivono monsignori che lavorano in vaticano (lo frequentavo spesso, quel convitto, nei miei anni “romani”, quando avevo libero accesso a gran parte della Città del Vaticano, alle sue convenientissime pompe di benzina, ai suoi negozi fortemente scontati: Governatorato, Annona, Farmacia), ma non vi avevo mai incontrato un papa, neppure di passaggio: niente più di qualche monsignore, qualche vescovo, forse una volta o due qualche cardinale.
Lui no! Lui, il PAPA, abitava più in alto, al terzo piano del Palazzo Apostolico, dove Pio XII prendeva i suoi pasti sempre solo; ai quali invece i suoi successori avevano preso ad ammettere, di quando in quando, qualche privilegiato; ai quali invece Giovanni Paolo II aveva cominciato ad ammettere sempre più spesso ospiti alla sua tavola, una tavola sempre più ricca d’umanità.
Oggi entrare in Vaticano è diventato molto più difficile, tanto che non sono neppure più tentato di fare una visita in San Pietro, dove per entrare si passa fra vigili e controlli come all’aeroporto: fra quelle tombe dei papi, nelle grotte, ho detto messa tutte le mattine per quattro anni, nutrendo la mia giovinezza di storia antica e di nuove speranze. Non poche delle quali si sono rivelate illusioni.
Sono tornato in quella piazza per l’ultima udienza generale di Benedetto XVI e per la prima benedizione dalla finestra al terzo piano di Francesco vescovo di Roma. Tuffi nel passato e bagni d’entusiasmo tra la le folle dell’oggi: solo nell’apparenza simili, ma nella sostanza tanto diverse le une dalle altre quanto diversi sono i tempi e gli uomini di allora e di oggi.
Perché ho ricordato tutto questo? Perché è importante leggere il presente alla luce del passato: ci aiuta a cogliere meglio le differenze, quelle più macroscopiche e quelle più di dettaglio, ben sapendo che spesso è proprio nei dettagli che si nasconde e s’annida il senso più vero degli eventi.
Proprio oggi un’idea m’ha preso di sorpresa: che proprio 50 anni fa moriva il vero precursore di Francesco a vescovo di Roma: quel papa Giovanni (era il XXIII di questo nome, ma per tutti ormai di papa Giovanni ce n’è uno solo, lui!) che tutto il mondo ha amato chiamandolo “il papa buono”. Strano destino il suo: per la grande storia sarà sempre il papa del Concilio, ma per i contemporanei fu soprattutto il papa del “discorso della luna”, il primo a entrare in un carcere romano, e a far visita ai piccoli malati del Bambin Gesù, il primo papa a risalire su un treno per varcare i confini del Lazio e rimettere piede in un Italia ormai secolarizzata, per invocare la protezione della Vergine di Loreto e di san Francesco sul “suo” Concilio. Azzarderei perfino un’ipotesi: che sia stata proprio quella sosta papa Giovanni ad Assisi il vero prologo e la scaturigine dello storico incontro interreligioso del 1986? Fortemente voluto da Giovanni Paolo II e così vistosamente snobbato dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI, lo “spirito d’Assisi” si prenderà la sua rivincita sul severo difensore delle prerogative romane solo 25 anni dopo.
Ora Francesco ha fatto sapere che il 4 ottobre prossimo sarà ad Assisi a rendere omaggio a colui cui deve il suo nome di vescovo di Roma. E non avrebbe potuto essere altrimenti per uno che ha fatto, e tanto radicalmente la scelta dei poveri e della Chiesa dei poveri: più ancora (perché tutto non si risolva solo in un affare di parole) della Chiesa povera: povera davvero però, in tutte le sue manifestazioni. E perché si capisca cosa in realtà lui vuol dire con queste parole, via tutti i segni del potere ricco dalla sua persona (gli ermellini, gli ori, le mitre gemmate).
Povertà anche di parola e di parole: niente, o quasi niente discorsi scritti da altri a nome suo, parole scritte per lui, che porteranno per sempre il suo nome senza essere uscite dalla sua mente e dal suo cuore, anche se da lui ispirate e suggerite. Del resto che vuoi farci è questa la regola. Tutti i potenti fanno così. Tutti, meno lui, Francesco, “felicemente in servizio” (a proposito, speriamo che a nessuno mai venga in mente di dire di lui felicemente regnante: m’immagino la reazione: “Io non regno, servo: io sono solo il servo dei servi di Dio”. Come Gregorio I il Grande, forse proprio il più grande fra tutti i vescovi di Roma. Un titolo di cui tutti dopo di lui han fatto sfoggio, ma non tutti con la stessa verità.
Come sarebbe bella una Chiesa povera che deponesse con il triregno e gli ermellini, anche le porpore dei cardinali (questo anacronistico rimasuglio di tempi certo non gloriosi per la Chiesa), gli anelli e le croci pettorali d’oro, i ferraioli di seta, e perché no, gli strani zucchetti dei vescovi, che ci riportano tutti alle nostre origini ebraiche. C’è proprio bisogno di ricordarlo?
A me, per esempio, piacerebbe una Chiesa che molto più che dei suoi periclitanti patrimoni si interessasse dei suoi poveri: una Chiesa che per ogni alienazione di patrimoni immobiliari o di beni di rifugio, prevedesse una qualche percentuale per le opere di carità e di beneficenza spicciola ai poveri- poveri. E mi piacerebbe che in ogni festa conviviale della Chiesa, non mancasse mai il piatto del povero che non è potuto entrare. Un piatto, una sedia, una candela accesa. Per il Gesù che soffre nel povero che non è potuto o che non è voluto entrare.


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