«Io mi ritengo religioso, e la mia religiosità consiste nel sentirmi parte di un tutto, anello di una catena che comprende tutto il creato… La mia religiosità non arriva a cercare di individuare il principio, che tu voglia chiamarlo creatore, regolatore o caos non fa la differenza. Però penso che tutto quello che abbiamo intorno abbia una sua logica, e questo è un pensiero al quale mi rivolgo quando sono in difficoltà, magari anche dandogli i nomi che ho imparato da bambino… Compagni, amici, coetanei considerarono “La buona novella” anacronistico. Non avevano capito che quel disco voleva essere un’allegoria che si precisava nel paragone tra le istanze migliori e più sensate della rivolta del Sessantotto e quelle, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate, ma da un punto di vista etico-sociale direi molto simili, che, 1969 anni prima, un signore aveva fatto contro gli abusi del potere, in nome di un egualitarismo e di una fratellanza universali. Si chiamava Gesù di Nazareth, e secondo me è stato ed è rimasto in più grande rivoluzionario di tutti i tempi» (Fabrizio De Andrè).
È questo un pensiero molto rivelatore dell’uomo Fabrizio De André.
Non che sia originalissimo in sé; non è certo lui il primo a riconoscere in Gesù di Nazaret «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 43,3; J.-E. Renan: anche lui non credente) o a scaricare sull’idea di Dio la causa di infiniti mali, stragi, guerre, odi secolari. Ma a noi interessa venire a conoscere la grande ammirazione di De André per l’uomo Gesù Cristo, «che è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi».
Una sola annotazione che mi stuzzica particolarmente: da dove verrà fuori quel un signore di cui De André gratifica l’ebreo Gesù? Impossibile immaginare qualcosa di più borghese e di meno “di sinistra” sulla bocca o dalla penna dell’anarchico De André. Altrettanto interessante che vi si riconosca che «le istanze migliori e più sensate» della rivoluzione sessantottina si ritrovavano già, qualcosa come 1969 anni prima, nel messaggio di quel “signore” di cui sopra, ma che sulla sua bocca esse risultavano «sicuramente più elevate da un punto di vista spirituale». E mi piace pensare che quel nome fosse uno di quelli che il poeta dice di aver «imparato da bambino».Di quelli che non si dimenticano più.
Mi farà da guida in questa riflessione il testo di un suo canto, una specie di ditirambo dal titolo: Laudate hominem che chiude il poemetto della Buona Novella. Con questa riflessione si chiude anche il piccolo ciclo di sei meditazioni sui testi di una delle più coinvolgenti sfide che il pensiero laico, ateo o agnostico che sia, ha lanciato alla fede cristiana in un linguaggio che molto più che sul rigore della logica, puntava sul fascino dell’emozione. E ora, direttamente al testo.
1° strofa
Laudate dominum
Laudate dominum
Gli umili, gli straccioni:
“Il potere che cercava,
il nostro umore
mentre uccideva
nel nome d’un dio,
nel nome d’un dio
uccideva un uomo:
nel nome di quel dio
si assolse.
Poi, chiamò dio
poi chiamò dio
poi chiamò dio quell’uomo
e nel suo nome
nuovo nome
altri uomini,
altri, altri uomini
uccise.
Non voglio pensarti
figlio di Dio
ma figlio dell’uomo,
fratello anche mio.
Questo il testo della prima strofa, certamente notevole per concetto e per costruzione. La mia lettura, lo dico subito, non ha nessuna pretesa di essere criticamente garantita. Non ho fatto, volutamente, nessuna ricerca sulle reali intenzioni del poeta nello stendere il suo testo, né sui retropensieri, né sulle sue frequentazioni letterarie e filosofiche precedenti.
Ho voluto leggere questo testo per come un comune lettore si avvicina a un poeta, a uno scrittore, a un musicista mosso solo dalla curiosità di scoprire qualcosa di nuovo, disposto a farsi sorprendere dall’entusiasmo, ma anche a doversi rassegnare alla noia. Bene, dirò solo che non mi sono mai annoiato; quanto all’entusiasmo parlerei più propriamente di interesse e di ammirazione. Ben sapendo che altri occhi, magari muniti di ben altri strumenti di osservazione e di indagine, potranno scoprirvi cento altri stimoli che a me sono sfuggiti. Ed ecco il risultato della mia lettura, mossa sempre, questo posso assicurarlo, da intelletto d’amore.
Il testo si apre con una delle più comuni e note acclamazioni della liturgia e di tutta la pietà cristiana: Laudate Dominum, lodate il Signore. E ti chiedi chi è che acclama? Una folla di devoti, magari raccolti a centinaia di migliaia in piazza San Pietro, o è lo stesso poeta, magari in un momento di buona disposizione verso la fede?
Né l’uno né l’altro. A cantare sono «gli umili e gli straccioni», ci dice il poeta. Magari straccioni piuttosto acculturati, se son capaci di fare un discorso così articolato e complesso.
Protagonista è il potere, sempre alla questua di consenso o in allarme per il dissenso, (spero che questa interpretazione non sia troppo lontana dal pensiero dell’autore scrivendo quelle sette parole «il potere che cercava / il nostro umore») perché il potere si regge solo sul consenso o sulla paura.
Dunque “quel giorno” (quello in cui uccisero Gesù) il potere era impegnato a uccidere un uomo nel nome di dio. E di fatto lo uccise. Poi, in nome di quello stesso dio nel nome del quale lo aveva ucciso, il potere assolse sé stesso dal proprio peccato.
Non solo, perché poi, di quello stesso uomo che il potere aveva ucciso nel nome di dio, lo stesso potere volle fare di lui un altro dio, e una volta fàttolo dio, in suo nome il potere poté uccidere altri uomini.
È la cruda verità: nessuno saprà mai quanta gente – a milioni, a decine, forse a centinaia di milioni – sia stata uccisa nel corso della storia, in nome del Gesù di Nazaret che il potere aveva fatto dio dopo averlo ucciso in nome di dio. Così l’uomo cominciò a invocare la morte del dio assetato di sangue umano (questo però lo dico io, non De André).
2° strofa
Laudate dominum
Laudate dominum
Ancora una volta
abbracciamo
la fede
che insegna ad avere
ad avere il diritto
al perdono, perdono
sul male commesso
nel nome d’un dio
che il male non volle,
il male non volle,
finché
restò uomo
uomo.
Non posso pensarti
figlio di Dio
ma figlio dell’uomo,
fratello anche mio.
Questa seconda strofa è forse oggettivamente la più blasfema.
Si faccia bene attenzione allo svolgimento del pensiero. De André forse aveva provato simpatia per quella fede che l’aveva accompagnato da bambino e che gli aveva fatto conoscere quell’Uomo che aveva imparato a chiamare Signore. Forse perché quell’uomo gli aveva riconosciuto il diritto al perdono sul male commesso nel nome di un dio che il male non volle, che il male non volle? È possibile. E come non sentire in quella ripetizione come un singhiozzo, un mancamento di voce? Forse a quell’uomo, l’adolescente Fabrizio, pur senza concedergli la sua fede, aveva concesso simpatia e rispetto: come si fa a non amare un dio che ti promette il diritto al perdono, qualunque sia il tuo peccato? Ma ciò durò solo finché l’uomo (Gesù) restò uomo…
Già, perché appena lo fecero dio, lui (o meglio, chi parlava in nome di lui) non fu più lo stesso di prima: incominciò a parlare di diavoli e di inferno, di castigo e di pena, a dire che c’era almeno un peccato che non sarebbe stato mai perdonato, quello contro lo spirito santo che poi è proprio quello a cui l’uomo tiene di più… la sua libertà di pensiero, di parola, di giudizio. La libertà di scegliere. Il peccato dell’Eden. Anche questo De André non lo dice: lo dico io evincendolo dalle sue parole. Fu la fine del mito, Forse d’un amore.
3° strofa
Qualcuno
qualcuno
tentò di imitarlo
se non ci riuscì
fu scusato
anche lui
perdonato
perché non s’imita
imita un dio,
un dio va temuto
e lodato lodato…
In molti vollero imitare quel dio dal volto umano, ma con scarso successo. Normale, pensa De André: perché non s’imita un dio. Lo sanno tutti, soprattutto i santi, quanto sia difficile imitare Gesù di Nazaret. De André sembra rammaricarsene, ma gli sembra normale, anzi se ne dà anche una ragione: «un dio va temuto e lodato /lodato…»: imitarlo non si può!
No Fabrizio, qui proprio ti perdi; e se ti perdi, perdi anche il meglio di ciò che ti viene offerto. Tu dici che un dio va temuto e lodato: forse un dio qualunque sì, ma non il Dio di Gesù di Nazaret. Forse il Dio dell’Abramo di Sodoma e Gomorra, di Mosè e del Faraone, il dio del diluvio e del Mar Rosso, ma non sarei affatto sicuro che quel Dio sia “lo stesso” del Dio di Gesù, quello del figlio prodigo, dell’adultera e della peccatrice che gli lava i piedi con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi capelli.
E non credo che qualcuno vorrà accusarmi di empietà o di eresia perché metto in contrapposizione fra loro il Dio giudice e vendicatore dell’Antico Testamento e il Padre misericordioso e paziente del Nuovo. Non me l’aspetto, perché mi immagino, o almeno lo spero, che siano in molti ad aver capito che la Sacra Scrittura, oltre a essere sì una lettera di Dio agli uomini, vada vista e capita anche come l’urlo dell’uomo al suo Dio, per richiamare la sua attenzione sulle nostre miserie, per invocare il suo aiuto. Per quanto mi riguarda io, il mio Dio, lo trovo solo in quello che si lascia crocifiggere col Figlio sulla croce a morire con lui. Non è forse vero che Deus caritas est, che Dio è amore? Perché se Dio non è amore, beh, non vorrei più saperne di lui.
Laudate hominem
No, non devo pensarti figlio di Dio
ma figlio dell’uomo, fratello anche mio.
Ma figlio dell’uomo, fratello anche mio.
Laudate hominem.
Con queste parole si chiude il poema. Due sole sottolineature. La prima: gli uomini, secondo De André, non hanno affatto bisogno di un Dio per sentirsi fratelli. Gli basta sapersi tutti una stessa carne e uno stesso sangue! Non amava lo stesso Gesù chiamarsi figlio dell’uomo?
La seconda: il grido accorato di De André lo porterò dentro a lungo: Signore ho bisogno di te! Non ti voglio, non ti posso, non ti devo regalare a Dio come figlio. Avrei paura di perderti come fratello. Vedi? Solo in questi tre casi ti ho scritto in maiuscolo: a quel Dio in maiuscolo io non ti lascio.