Ci voleva proprio quel martire piccolo piccolo ucciso a Palermo nel famigerato quartiere Brancaccio, controllato dalla criminalità organizzata, il 15 settembre 1993, proprio nel giorno del suo 56° compleanno!
Ci voleva per Palermo e per la Sicilia, una regione nella quale, se non sei almeno un po’ iniziato al linguaggio e ai riti locali, non riusciresti neppure a capire se ti trovi in chiesa o in un contesto mafioso, tanto il linguaggio delle famiglie è ricalcato su quello della Chiesa.
Ci voleva per la Chiesa siciliana, che non è ancora riuscita a purificarsi del tutto da certe forme di convivenza (sfociante spesso nella connivenza). E anche se nessuno ha potuto dimenticare il grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento, quando giunse a evocare «la venuta del giudizio di Dio» e a lanciare ai mafiosi l’invito alla conversione e alla penitenza, nessuno potrebbe neanche dire che siano molte le cose veramente cambiate nell’isola che vide lo splendore di Federico II di Svevia. Un anno prima Falcone e Borsellino erano stati ammazzati.
Ma ci voleva anche per noi, per la grande Chiesa, che sembra annaspare negli scandali che coinvolgono sia la base sia la sua base sia, peggio ancora, i suoi vertici.
Si è scritto che il XX secolo è stato il secolo con il più alto numero di cristiani trucidati nel mondo a causa della loro fede; il XXI non promette niente di meglio.
E allora cominci a pensare che una religione non muore mai di sole bombe e di soli attentati (anzi questi, alle volte, possono anche aiutarla a crescere): basta pensare a come è cresciuta e s’è diffusa la cristianità alle sue origini: è partita con una dozzina di apostoli e qualche decina di discepoli.
Perché è ben questa la vera grande differenza fra la nascita e i tempi di espansione dell’Islam e quelli, apparentemente molto più lenti e deludenti del cristianesimo: l’Islam si giovò degli eserciti e delle armi da terra e delle flotte da guerra. Gli apostoli di Cristo si muovevano a piedi, qualche volta a cavallo, altre volte in nave ma sempre da soli o in gruppetti di due o tre persone. Non dovevano portare con sé niente che non sia la fede: per tutto dovevano dipendere dalla Provvidenza.
Solo molto più tardi le cose sarebbero cambiate: quando l’Impero romano, ormai in preda a una inesorabile decadenza, sembrò trovare nella nuova religione la sua via alla sopravvivenza: “cambiare perché nulla cambi”, quasi un gattopardo ante litteram. Senza nemmeno cambiare gestori (i cristiani, erano pur sempre cittadini romani). Solo qualche aggiustamento, e fu possibile continuare a parlare di romano impero, solo che si chiamerà sacro, cioè cristiano. Con le chiese al posto dei templi, un pantheon trasformato in chiesa e il Colle Vaticano a far da stella a tre punte con il Sinai e il monte Sion di cui il Calvario è solo una gobba di poco rilievo.
Detto così pare facile, e financo geniale, ma la cosa non andò senza tragedie, e molti cristiani cominciarono a macchiarsi degli stessi abomini che i pagani avevano già compiuto su di loro, agli inizi dell’era cristiana. Le mani dei cristiani si macchiarono di sangue innocente, proprio come quelle dei pagani s’erano sporcate di sangue cristiano: Gesù di Nazareth, il mite profeta dell’ amore, stava diventando il Pantocratore dal severo aspetto di giudice. Per la sua gloria diventava ora lecito fare ai pagani quello che i pagani avevano fatto a loro. A farne le spese, anche la filosofa e astronoma Ipazia, fatta a pezzi dai cristiani su un altare pagano.
E purtroppo sarà solo un inizio: perché poi cominceranno i roghi e le torture per eretici e streghe, e poi le crociate, le notti di San Bartolomeo, i pogrom, la legittimazione della schiavitù dei negri (avranno un’anima? qualcuno si chiedeva) e comunque le ricchezze della loro terra fanno più comodo a noi. Imperialismo brutale a sfondo squisitamente razziale.
Fu lì, (e a mio avviso quel lì dura ancora) che cominciarono i guai per la nostra fede, anzi, meglio, per la nostra religione: quando ci si dimenticò che la fede è un dono, e il sì al dono deve rimanere sempre e necessariamente un atto di libera scelta, a cui non può in nessun caso corrispondere l’obbligo, il dover dire sempre e comunque sì.
Ma più insidiosa ancora di questa è l’altra tentazione, quella che si accompagna necessariamente al trionfo d’un’idea e d’una aspirazione: una tentazione che si manifestò già vivente Gesù: «…fa che questi miei figli siedano uno alla tua destra e l’altro alla tua sinistra» (Mt, 20,21). A parlare è una madre; quanto ai discepoli stessi spesso vennero sorpresi a discutere chi fra loro è il più grande (Lc 9,46).
Bene: a voler credere a Benedetto XVI (e come non credergli?), questa tentazione deve conoscere ai nostri tempi un rigurgito di tale violenza e fragore da rendere sgomento il papa stesso. Che da anni ormai lamenta e denuncia questo ammorbante fumus satanae nella Chiesa. Lo denuncia ma si sente impotente davanti ad esso. Allora lui si chiude nel suo studio e scrive di teologia. Gli fa sperare che a qualcosa possa servire. Poi magari non serve a niente e a nessuno, ma gli consente di sperare.
Immagino le proteste (che non ci saranno, perché nessuno di quelli che contano mi legge): “come non serve a niente e a nessuno” l’opera di uno dei massimi teologi del nostro tempo? E papa per di più? Che parlare, che scrivere è questo da parte di un prete?
Ebbene sì è proprio questo il parlare e lo scrivere che rimette in onore l’annunciata beatificazione di don Pino Puglisi: amici e fratelli nella fede in Cristo, le dispute teologiche non servono più (lo scrivevo già lo scorso autunno) oggi c’è un solo lógos che conta, quello che ci richiamava proprio Benedetto XVI nella sua prima enciclica: Dio è amore! L’amore di don Puglisi, verso i suoi bambini, i suoi ragazzi di Brancaccio a Palermo, quelli che lui voleva sottrarre alla mafia per indirizzarli verso Cristo, dunque verso l’uomo. Sai quanti discorsi avrà fatto loro sulla Trinità e sulla transustanziazione, sulla storicità dei vangeli e su quella del Pentateuco? Mi par di sentirlo: Gesù ci ha spiegato tutto, ci ha fatto capire tutto: conta soltanto volerci bene, rispettarci sempre, aiutarci ogni volta che possiamo; non fare mai del male a nessuno, e fuggire tutti quelli che ci vogliono portar lì, a far male: a farci male da soli e a fare il male agli altri. Guardare il compagno e vedere il Gesù che è in lui, anzi, vedere in lui Gesù. E fare più bello e più buono il tuo spicchio di mondo, e se lo farai più bello, tutto il mondo sarà più bello. Fuggite il male come la peste. Non era questa la teologia di Madre Teresa di Calcutta?
Non avrà parlato così? Mi immagino non molto diversamente comunque. O forse proprio le stesse cose, anche se con altre parole. Grazie don Pino, d’avercelo ricordato.
PS. Se qualcuno conosce qualcuno della Pontificia Commissione per la nuova Evangelizzazione, gli spieghi che un povero prete di campagna gli manda a dire che di nuova evangelizzazione ce n’è una sola, questa: Il vangelo è tutto qui: Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso. Tutto il resto viene dal Maligno. Solo abbi fede! (Nota bene: nessuna di queste ultime parole è mia)