Quando il botta e risposta è scuola di civiltà


Mi sono sentito onorato, lunedì scorso, vedendo sulla prima pagina del “nostro” Giornale l’intervento con il quale il “nostro” (certo: anche “mio”) Direttore Dott. Giuseppe Castellini prendeva le distanze dal mio articolo del giorno prima, domenica 26 febbraio (La ricchezza è peccato? La Severino dice di no).
Onorato e grato, anche, perché il suo intervento, con le obiezioni e con le note critiche che conteneva, mi dava subito l’occasione per riprendere il discorso che avevo giusto lasciato aperto, annunciando, nelle due ultime righe del citato articolo, che ci sarei tornato sopra in una prossima occasione. Non avrei mai pensato così presto.
Gli ho subito inviato un messaggio di posta elettronica per chiarire meglio il mio pensiero, al fine di dissipare ogni dubbio sulle mie intenzioni. Ci fu un ulteriore scambio di email e, alle venti, il piccolo “incidente” era chiuso, con piena soddisfazione di entrambi.
Cercherò, con le righe che seguono, di rendere per i lettori, termini e sostanza del “contendere”.
Per chi non ci avesse letti, riepilogherò molto brevemente i termini del civilissimo contraddittorio.
Nel mio articolo, che aveva preso lo spunto dalla pubblicazione dei compensi dei membri del governo e dei massimi funzionari di Stato, avevo sostenuto che a mio avviso – un avviso ispirato dalla parola evangelica e dalla grande tradizione sociale cristiana – quei compensi erano da considerare quanto meno troppo – tanto troppo! – alti, specialmente se confrontati con gli stipendi medi dei contribuenti italiani (un esempio: il Capo della Polizia 621.000 euro; il poliziottino con il casco della Val di Susa 1.300 euro al mese. Moltiplicate per 12-14 volte poi fate la sottrazione!).
A conforto di questa mia presa di posizione, riportavo poche ma significative frasi tratte dal Vangelo di Gesù Cristo e dal concorde insegnamento della grande tradizione sociale, civile e ascetica del messaggio cristiano e della Chiesa.
Queste parole non sono sembrate convincenti al dott. Castellini, il quale nella sua ampia e articolata risposta, sviluppa il suo pensiero in sei punti di diverso respiro. Nei primi quattro punti egli riassume egregiamente la dottrina e i principi di un’economica liberale fondata su un modello di società aperta (Karl Popper), come principale e probabilmente unico vero antidoto agli errori e agli orrori delle società a una sola dimensione, chiuse in sé stesse e totalitarie, che hanno funestato tanta parte dell’umanità nel secolo scorso.
Secondo il nostro Direttore, questo sistema liberale (e qui cita un altro grande liberale, Luigi Einaudi) ha il grande pregio di contenere in sé stesso i necessari anticorpi per prevenire o per rimediare agli abusi che lo stesso sistema può ingenerare: «abbassare le punte in alto (attraverso un prelievo maggiore su chi ha di più, colpendo però più le rendite che la produzione di ricchezza). In definitiva, la vera soluzione ai difetti del sistema «non è attribuire alla ricchezza il carattere di “peccato” (perché senza la libera attività imprenditoriale la ricchezza non si produce e si precipita nella povertà di tutti), ma far funzionare i meccanismi redistributivi». Il suo articolo continua a lungo, ma a me basta qui.
Nella mia risposta“a caldo”, facevo notare al mio “contraddittore” che nella sua esposizione dei principi del liberalismo sociale ed economico io mi ritrovo perfettamente quando ne parla come di «una “cornice”, di un “campo” in cui ognuno può e deve agire liberamente, provando a innalzarsi». La condivisione di pensiero sfiora l’entusiasmo conclude quest’ultima frase con questa preziosa postilla: «Senza lasciare a se stesso chi non ce la fa». Qui c’è tutta la grande dottrina sociale del welfare e degli ammortizzatori sociali in favore dei meno garantiti delle nostre società opulente.
Ebbene, caro Direttore, qui mi ci ritrovo tutto, come cittadino e come cristiano. Non per nulla dicevo che, finché si produce ricchezza, di regola non c’è peccato (il giudizio però cambia secondo che cosa si produce). Questo lo dicevo già domenica scorsa. Perché il peccato se il lavoro è onesto) incomincia solo e proprio qui: quando si arriva alla “distribuzione” della ricchezza prodotta.
Spero di riuscire a farmi capire bene. Se la mia attività imprenditoriale, pubblica o privata che sia, funziona bene, è evidente che produrrà ricchezza. Perché il sistema funzioni correttamente si richiede che sappia, e possa, produrre “cose” (includo in queste “cose” anche i “servizi”) capaci di migliorare la vita degli umani. Non penso solo all’elettronica, alla robotica e alla produzione di cibo, ma anche a cose che sappiano elevare gli standard sociali, culturali e civili della vita umana producendo ricchezza da distribuire e servizi da garantire.
È solo a questo punto che può intervenire la categoria che si è convenuto di chiamare “peccato”. Perché è solo a questo punto che si scateneranno gli istinti peggiori dell’animale umano. Un animale che sa raggiungere punte di cinismo, di durezza, di crudeltà che nessun altro animale saprà mai né potrà mai emulare: perché per giungere a quei livelli c’è bisogno d’una dote che solo l’uomo possiede: l’intelligenza. E quanto più intelligente sarà l’uomo tanto più devastante e micidiale sarà la sua potenza di fuoco di devastazione e di morte. Non sono mai i ladri di polli o il vicino di casa che uccide la moglie a passare alla storia: ma i massacratori di popoli interi, Alessandro Magno, Gengis Khan, Napoleone, Hitler, Stalin…
Perché è evidente: non sarà mai il “povero untorello” che “spianterà” Milano. Queste sono prerogative che solo i poteri forti della finanza, del petrolio, del mercato delle armi, dei monopoli, della farmaceutica… che, da soli o uniti insieme in uno o in tanti cartelli, saranno capaci di infliggere danni pesantissimi alle società.
È l’«auri sacra fames» di Virgilio che avvelena ancora l’aria che respiriamo. È la concentrazione del denaro in poche mani la grande minaccia del mondo, perché il pericolo è proprio nella natura del denaro. San Basilio Magno ne parla più o meno così: Non c’è un limite alla fame e sete di denaro. Tu stai guadagnando e già pensi a come potrai fare a guadagnare ancora di più; raggiungi una meta e intanto già te ne proponi un’altra.
Il denaro non dorme: esso lavora per te anche quando tu dormi. E spesso per venire nelle tue mani, che ne hanno già tanto, scivola via da mani che di denaro hanno solo quel poco che gli sta tra le dita: che quando lo avranno perduto ne resteranno senza del tutto.
Il denaro può diventare competizione, gara, duello all’ultimo sangue. Una gara dove arrivare secondo ti fa già sentir male.
“Ma ci sono anche lavori onesti!” è l’obiezione. Nessuno lo mette in dubbio, ma neppure qui tu sei del tutto al sicuro dal tuo istinto predatorio. Le parcelle saranno certo legali, ma chi dovrà stabilire i limiti e le soglie oltre le quali non è lecito andare? Sono storia recenti gli ammutinamenti dei “onorevoli” (quanto?) liberi professionisti.
Ora riprendo il discorso proprio lì dove l’avevo interrotto domenica scorsa.
Con una premessa: qui il discorso smette di riguardare le leggi dell’economia per diventare soltanto etico; o anche religioso se si vuole. Un discorso che vale solo per quelli che «hanno mani innocenti e cuore puro» (Sal 23,4).
Io chiedo a te, grande luminare della medicina, famoso principe del foro, vecchio notaio dai tempi di tuo bisnonno: qual è il tuo onorario?
Ma anche: qual’è la tua parcella di affermato commercialista, di buon dentista, di cardiologo di oncologo di fama?
Ti sei mai chiesto se il tuo cliente se lo può consentire? O la tua coscienza è tranquilla perché te la cavi dicendoti: per “loro” ci sono le strutture pubbliche; si mettano in fila e aspettino quello che c’è da aspettare. I prezzi alti servono a selezionare la clientela e io «non amo la miscela dell’alta e bassa gente». E se tu abbassassi le tue tariffe, esimio professionista che della tua libertà ti fai un onore e un vanto, abile artigiano un po’ esoso, famoso giocatore: sai se tu prendessi un po’ meno, forse i biglietti allo stadio sarebbero più a buon mercato, e io potrei venirci con minori scrupoli di coscienza. Vedi? Io non mi posso difendere in tribunale se tu mi prendi tutto quel poco che ho. Ciò vale anche per te, idraulico, che mi chiedi un occhio per sostituirmi un rubinetto.
Tu rispondi: “È la legge del mercato, bellezza!”. Sarà anche la legge del mercato, ma non è certo la legge di Cristo. Io, mi sa tanto che questo povero Cristo doveva essere un gran pezzo d’ingenuo, se non ha ancora capito che tutta la perdita di “appeal” del suo messaggio, dipende anche da questo. Beati i poveri? Ma a chi crede di parlare? Certo non per me. Io non ci trovo nessuna beatitudine nella povertà! Per questo io la colazione la faccio sempre alla privativa di Stato; un caffè e una fregatura, tutte le mattine. Ormai è tutto un “grattacocco!”. Sono un benemerito: ogni giorno mi tasso in favore dello Stato. Ma va bene così. E poi ogni tanto vinco qualcosa: sai la goduria! Intanto qualcuno si lecca i baffi e si tranquillizza: io gliel’avevo detto “gioca il giusto”. Se quello si svena, affari suoi.
Ecco ora credo di avere espresso compiutamente il mio pensiero. Non pretendo di aver convinto tutti, anzi probabilmente non avrò convinto nessuno: forse solo ho dato fastidio a molti. Ma è quanto dovevo dire.
Perché fratello ricco che chiedi un Cartier senza nemmeno domandarne il prezzo, pensa anche questo: tu puoi dire “non è questione di soldi” ma per i poveri il denaro è sangue. Ogni “morto di povertà” è un pezzo di Cristo che muore su una crudele croce che ha nome fame, o malattia curabile ma solo per chi ha soldi per curarla, o seno asciutto per non avere di che produrre il latte che farebbe vivere il tuo bambino.
Allora non sono più “affari suoi”.
Sono affari di tutti.