Nostalgia del tempo delle siepi


Ho nostalgia del tempo delle siepi.
C’è ancora qualcuno che le ricorda? No, non parlo delle siepi che delimitano uno spazio: un giardino, una proprietà, un campo. Non di quelle siepi si tratta.
Le siepi di cui vi parlo erano una cosa che un istante prima non c’erano, e un istante dopo sì. Apparivano all’improvviso, normalmente inattese, e bastava nominarle e indicarle presenti, che come per incanto un discorso cambiava completamente di senso, di argomento, di tono, di lessico, di immagini.
Chi era il demiurgo capace di tale prodigio? Potrà apparire strano a chi quell’età, tutta da rimpiangere, non ha conosciuto e vissuto, ma quel prodigio lo faceva il più fragile di tutti gli umani, il più indifeso e il meno temibile: il bambino. Tanto fragile e indifeso e tanto poco temibile, che proprio per difenderlo si facevano apparire in un istante le siepi, per poi magari altrettanto repentinamente ritirarle un istante dopo che il bambino era uscito o s’era allontanato dal gruppo dei ciarlieri.
Di che cosa dunque sto parlando, perché anche chi quel tempo non ha potuto conoscere possa finalmente capire?
Di questo: quelli della mia età, e anche quelli di poco più giovani, si ricorderanno che quando nel parlottare, cianciare, chiacchierare, sparlare, spettegolare, o addirittura parlar greve o sconcio fra persone adulte e navigate, si toccavano certi argomenti, o si faceva uso di parole sconvenienti o decisamente volgari, o si facevano racconti e apprezzamenti su uomini e soprattutto donne di dubbia fama o di fama fin lì onorata, ma sulle quali cominciavano ad addensarsi ombre e a nascere dubbi: se in quei momenti faceva apparizione, atteso o no, annunciato o no che fosse, un minore, femmina o maschio non importa, subito veniva evocata la fatidica siepe, che subito si materializzava con buona e spesso sicura efficacia. “Attenti, ci sono le siepi”. E d’incanto le parole si facevano oneste e caste, le sghignazzate lasciavano il posto ai sorrisi contenuti, e la conversazione cambiava subito direzione, come fa un treno in stazione, quando cambia binario.
Ebbene, di quel tempo io ho nostalgia.
Questi stravaganti pensieri mi sono tornati alla mente il 3 agosto u.s., leggendo, su laRepubblica, un bell’articolo di Raffaele Simone dal titolo: «IL CULTO DEL BAMBINO. Così l’Occidente ha creato un piccolo adulto senza infanzia». L’Autore, che lascia comprendere di conoscere bene la materia di cui tratta, dice molte cose che io condivido appieno, tanto che preferisco lasciare a lui il compito di dire ciò che io stesso penso. Alla fine ne trarrò una breve conclusione che riguarda più da vicino un problema di cui spesso sono tenuto a occuparmi.
«Anche se negli USA sono sempre più numerose le associazioni di genitori che chiedono la fine dei concorsi di bellezza infantili, in cui pupette fra i tre e i sette anni gareggiano in tenuta e con gesti da vamp, ciò non basta a farci sperare che i nostri bambini ritorneranno bambini. In tutti i paesi occidentali il bambino è ormai, sempre più spesso un adulto rimpicciolito… Dispone di un abbigliamento super specializzato, gadget elettronici, telefonini, micro motorini, un’alimentazione mirata e sofisticatissima, per non parlare naturalmente di quelle che in Italia si chiamano “attività” (corsi di sport, lingue, vacanze intelligenti…) che rendono l’agenda del piccolo minorenne più fitta di quella di un cardiochirurgo».
Simone fa notare come il bambino ha così finito con lo smarrire o col perdere del tutto quella che era stata giustamente considerata una delle più felici conquiste della civiltà moderna (sec. XIX): il bambino come soggetto, come individuo a sé, come persona umana completa.
Il cammino non fu breve, e ancora alla metà del secolo scorso si potevano avere casi come quelli narrati da Gavino Ledda nel suo celebre libro autobiografico “Padre padrone”, e ancora oggi è statistica accettata da tutti che circa il 70% dei casi di pedofilia viene consumato in famiglia. Soprattutto nel secolo scorso il movimento per i diritti dei più deboli (operai, donne, bambini), spesso incarnato nelle lotte a ispirazione socialista, l’attenzione al bambino segnò grandi progressi. La psicanalisi diede un’altra mano con la formula di Sigmund Freud: «il bambino è padre dell’adulto». Come dire: è nel bambino che incuba l’adulto.
Né va dimenticato, in questo movimento di formazione dell’adulto attraverso l’educazione del bambino, la grande tradizione cristiana e cattolica che per secoli ha fatto nascere nelle città e nei centri anche minori, scuole popolari alla portata dei poveri (si pensi a Don Lorenzo Milani).
Continuava Simone: «Ma, come molte conquiste, anche questa si può declinare in pericolo. Il primo di questi è che… in nome della libertà… del bambino si possono sacrificare e posporre anche il rigore, l’ordine e il rispetto degli altri». Ormai regna un assioma: «nulla va opposto alla libertà del bambino». Lo sperimentano ogni giorno di più gli insegnanti delle scuole pubbliche, dalle elementari al liceo: «Le famiglie sono spesso le più aggressive controparti della scuola, e non sempre si battono in nome della qualità del risultato: per lo più la loro causa è la granitica difesa della libertà del (proprio) bambino anche contro l’istituzione e i suoi propositi» (idem).
«Il tratto più inquietante: l’emulazione anticipata e sfrontata dell’adulto: consumismo affluente, polemica contrapposizione ai grandi (che può arrivare al dileggio degli adulti e degli anziani), relativa indifferenza del bene comune, anticipazione generalizzata (nei ragazzi) delle prime esperienze sessuali e della droga…».
Sono lontani i tempi in cui «la gioventù, ammirava i grandi, da loro riceveva le norme, aspettava la loro approvazione e temeva la loro ira… Oggi la gioventù pare padrona indiscutibile della situazione e tutti i suoi movimenti sono saturi di dominio». La conclusione, amara, è la seguente: «Fra le tante “riforme impossibili” che si potrebbero studiare… andrebbe messa anche quella di rifare del nostro bambino un bambino e di tornare a salvarlo dal terribile modello in cui è stato cacciato».
Qualcuno vorrà dirmi che questo articolo non mi è costato granché, che è quasi copiato? È vero, ma l’ho fatto per un motivo preciso: delle mie parole si sarebbe potuto dire che è il solito lamento clericale nel vedere che i ragazzi stanno lasciando gli oratori per le discoteche e i campi grest per i campeggi di Rimini.
Non che questo pensiero mi sia estraneo: è un fatto che a farne le spese è anche il catechismo per la prima comunione e per la cresima: trovare un momento che vada bene per tutti è praticamente impossibile. Ormai un bambino non ha più tempi liberi e il catechismo non è più una promozione, ma un fastidio che si subisce a collo torto. Nemmeno le domeniche dei ragazzi sono più libere: tra saggi, gite, matrimoni, battesimi e cresime da onorare, quando mai li hai tutti al catechismo? Spesso i preti cercano di mostrare quella comprensione che gli altri insegnanti non sono disposti a concedere. Fanno bene? Sinceramente ne dubito. Il bambino avverte che il catechismo è roba da ragazzini, e lui ragazzino non si sente più: neppure vuol sentirselo dire. E il catechismo gli diventa un peso, di cui sbarazzarsi prima possibile. Per potersi sentire “grande”.