Mi vedo costretto a tornare sull’argomento dell’articolo di domenica scorsa, sull’utilità e sulla stessa legittimità di una scienza, certo tutta sui generis, come la teologia, sul quale mi sono pervenuti consensi anche entusiastici, ma anche qualche riserva.
Probabilmente le perplessità sono state generate anche dal titolo che i lettori hanno trovato sul giornale: “Teologia. Riflessioni su una non scienza”. Perplessità comprensibili, e probabilmente perfino inevitabili.
Il titolo però, come spesso avviene sui giornali, non era mio. Devo essere grato alla redazione del Giornale dell’Umbria che molto spesso rispettano i titoli che io stesso propongo. Solo raramente li modificano (a volte dipende dallo spazio di cui dispongono). Altre volte il cambiamento tende a “stuzzicare” l’interesse o la curiosità dei lettori. È possibile che domenica scorso il mio titolo fosse troppo breve per lo spazio riservatomi. “Serve ancora la teologia?”. Decisamente troppo breve per un fascione.
Perché dedico tanto spazio a una questione tutto considerato molto secondaria? Perché probabilmente quel titolo deve aver colpito, forse anche ferito, qualcuno. “Riflessioni su una non scienza” non poteva passare inosservato. La sorpresa è comprensibile. Insegno teologia da trentatre anni: quasi tutti i preti dell’Umbria sotto i 55-60 anni sono passati davanti a me sui banchi dell’Istituto teologico di Assisi e diverse altre centinaia li ho avuti studenti nelle varie università e facoltà teologiche di Roma. A tutti ho parlato della liturgia (la disciplina teologica che insegno) come di una disciplina che si giova di due diversi “statuti”.
Il primo è quello proprio ed esclusivo della fede; il secondo è lo statuto proprio di ogni scienza che proceda su base di metodi positivi, deduttivi, analitici, storici; soggetti in quanto tali a tutti i limiti delle scienza positive che non escludono mai la possibilità dell’errore e, per definizione, non prevedono né contemplano mai dogmi indiscutibili.
Il primo, lo statuto della fede, ha come punto di partenza qualcosa che nulla mai potrà venire a dichiarare superato: il dato di fede (dogma). Per il secondo, quello della scienza, nulla è mai definitivo, nulla è mai detto una volta per tutte, a meno che non siano state raggiunte certezze sperimentalmente, storicamente inconfutabili. Anzi, perfino in questo caso, tutto rimane vero finché non verrà alla luce qualche altro dato incontrovertibile, in grado di rovesciare ogni precedente acquisizione e certezza. Così è stato con Copernico, Darwin, Einstein.
Non è così per lo statuto della ricerca e della riflessione sul dato di fede. Qui il punto di partenza è lo stesso dato di fede, da ritenere assolutamente come immutabile, intorno al quale si può solo lavorare per renderlo più chiaro, più luminoso, più ricco, mediante le acquisizioni delle diverse discipline sia umanistiche sia scientifiche. Qui il fine della “scienza” non è tanto l’acquisizione della verità, data già per posseduta, ma la sua fruizione sia a livello di edificazione personale sia al fine di renderne più efficace l’annuncio mediante la predicazione, la pastorale, la vita ascetica.
È solo dopo aver messo in chiaro tutto questo che un discorso sulla teologia come scienza può avere un senso. E sarà evidente che le conclusioni non potranno essere che diverse secondo il punto di vista e di partenza nel quale ci si pone.
È evidente che se la teologia viene vista e intesa come l’attività cognitiva dell’animale e dell’intelletto umani, tesa a conoscere la verità sul mondo in cui vive, la teologia può essere dichiarata a pieno diritto una scienza nel senso pieno e integrale del termine. Sotto questo punto di vista chiunque può affrontarla e dedicarvisi a pieno titolo e diritto. Chi la vorrà studiare non ha nessun obbligo, nessun dovere di credere (nel senso di nutrire fede in ciò che forma l’oggetto del suo studio). Come al cristiano non può essere contestato il diritto di studiare la storia e lo spirito e l’essenza dell’ateismo, la storia e la teologia e la liturgia ebraica, coltivare lo studio dell’islamismo o del buddismo senza per questo dover prestare loro il suo assenso di fede, così si dovrà dire di coloro che, non cristiani, volessero dedicarsi alla conoscenza e allo studio di quel “phenómenon” che fu l’apparizione, l’affermazione, lo sviluppo e oggi (forse) la crisi dello stesso.
Mi fu ben chiaro quando il grande filosofo cattolico francese Jean Guitton, a me che, giovanissimo, lo informavo sulla mia decisione di studiare e laurearmi in liturgia, rispose: «Perché proprio in liturgia? Anche un ateo può studiare e scrivere di liturgia». Aveva perfettamente ragione. Però ammise che potevo aver ragione anch’io quando gli risposi: «È certamente vero; però la si può studiare anche perché mossi dalla fede».
Ora si può tornare alla nostra domanda iniziale: serve ancora la teologia? E poiché nel precedente articolo ho messo soprattutto in luce i pericoli cui va incontro uno studio della teologia che pretenda di farsi essa stessa “parola di Dio” anziché riconoscersi umilmente per ciò che è: “parole dell’uomo che tenta di dire qualcosa su Dio”, con tutti i pericoli di errore e d’intolleranza che ne possono derivare, oggi mi dedicherò a mettere in luce tutti i vantaggi che ne possono venire alla vera fede. Perché sapere di più è sempre meglio che sapere di meno. Anche nell’amore.
C’è qualcuno che, avendo amato un uomo, una donna, un poeta, un artista, un santo, una montagna, una città, non ha anche, e subito, avvertito come urgente il desiderio di saperne di più? Conoscere è come spianare e dilatare le vie all’amore. Capire per meglio penetrare nei pensieri, negli affetti, nei desideri, nei segreti della persona o della cosa amata: e questo quanto più sei disposto a giocare tutto su lui/lei, a puntare tutto su quell’amore.
Allora ti preme conoscerlo meglio, saperne di più, conoscerne la storia, la vita, le idee, i gusti, i progetti… e soprattutto sapere quello che lui pensa di te, cosa desidera, cosa si aspetta da te: lo vuoi sapere per sapere come piacergli, come soddisfare ogni sua attesa, come evitargli ogni dispiacere, ogni delusione, ogni amarezza; perché nulla venga a turbare il suo cuore e il vostro amore.
In questo senso anche un’altra teologia, quella scritta dalle menti e dai cuori innamorati incomincia a interessare, per trovarvi consigli, esperienze, insegnamenti: anche i “trucchi” d’amore ti piace conoscere, come arrivare meglio a conquistare e a mantenere vivo quell’amore. È la storia dei santi, questi grandi amanti di Dio, coloro che ne hanno scoperto le vie più segrete e più riposte. Che hanno saputo meglio degli altri vivere di Lui.
È qui che nasce la ricerca del “modello”: Francesco d’Assisi o Ignazio di Loyola, Francesco Saverio o Damiano dei lebbrosi, Teresa di Gesù Bambino, Caterina da Siena, Teresa di Calcutta.
“Teologia ascetica e mistica” si chiama quest’ultimo ramo della teologia, e c’è chi ne è avido. Perché nella casa dell’unico Padre ci sono molte mansioni (Gv 14,2). E molte strade conduco a lui. E per ognuno di noi ne è stata tracciata una.
Teologia: serve ancora? Sì, con qualche ma…
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