Negli occhi bianchi di quel bimbo nero…

Il 27 aprile del 2006 il card. Carlo Maria Martini, rispondendo a una domanda dell’on. Ignazio Marino che lo intervistava, sottolineava che lo scopo dell’adozione era essenzialmente quello di assicurare al bambino le migliori condizioni “concretamente possibili” per uno sviluppo integralmente umano.
Il cardinale voleva con ciò sottolineare che la priorità, nell’adozione di un bambino, non va mai riconosciuta a colui/colei che adotta, ma sempre al bambino. Come dire: non ci si procura un bambino perché ci piace avere un bambino, ma lo si adotta perché c’è un bambino che ha bisogno di chi si prenda cura di lui. Che poi le due cose vadano quasi sempre insieme, ciò non potrà costituire un motivo di meraviglia, ma è importante che la priorità venga sempre riconosciuta al bambino.
Ponendosi dal punto di vista del bambino “orfano o abbandonato”, il cardinale sottolineava ancora che nell’istruzione della pratica di adozione è importante accertarsi che le intenzioni dei richiedenti siano tali da assicurare che, chi si prenderà cura del bambino adottato, sia mosso da giuste ragioni e abbia anche i mezzi e le capacità per assicurargli una crescita serena». In questo senso e a questo fine appare evidente che la famiglia tradizionale (cioè una coppia com­posta da un uomo e da una donna) offra maggiori e migliori garanzie di solidità, di continuità, di affidabilità di quelle che possono essere offerte da una persona “singola” (il Lettore mi scusi, ma io non amo usare l’inglese quando c’è una parola italiana che traduce esattamente quella albionica; specialmente quando, come in questo caso, l’inglese ricopia o traslittera quella latina) .
La cosa appare evidente per sé stessa, anche se ormai, con l’introduzione del divorzio e più ancora con la spaventosa leggerezza con cui si mettono insieme e si sfasciano le coppie e le famiglie, risulta sempre più difficile offrire una vera garanzia di continuità al “contratto” coniugale e alla convivenza familiare.
Passando poi a chiarire compiutamente il senso delle sue parole, il cardinale adotta un linguaggio ancor più diretto e preciso. Se si vuole un identikit del soggetto di una adozione, bisognerà «certamente (pensare) anzitutto a una famiglia com­posta da un uomo e da una donna che abbiano saggezza e maturità e che possano assicurare una serie di relazioni anche intrafamiliari atte a far crescere il bambino da tutti i punti di vista».
Fin qui, probabilmente, pochi si sentiranno di poter muovere critiche alle parole e al pensiero dell’ex arcivescovo di Milano. Il quale poi aggiunge che solo «in mancanza di questo è chiaro che anche altre persone, al limite anche i singles, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali».
Il pensiero del cardinale a questo punto è completo e assolutamente chiaro, ma tale da scontentare molti. Perché di fatto esso si colloca nel solco di tutto il pensiero classico e ufficiale della Chiesa cattolica, anche nella sua dimensione più evidentemente romana.
In parole molto semplici: si può dare un bambino in adozione a un singolo solo una volta che siano esperite tutte le vie e gli strumenti per assicurargli un’adozione di coppia, la quale è precisamente, e resta, la via maestra, e come tale la prima, sempre, da percorrere.
È questo il classico, tradizionale, condiviso principio della giurisdizione sia civile sia ecclesiastica, almeno in Italia. Giurisdizioni che prevedono anche la possibilità di concedere sia l’affido sia l’adozione anche a un singolo/a di cui siano conosciute la probità, l’onestà di costumi e di pensiero,
Immagino l’obiezione: il solito discorso da prete. Il solito pregiudizio veteroscolastico, la solita fobia antimodernistica, che le fa rifiutare tutto ciò che la coscienza moderna deduce dall’evoluzione del costume, del pensiero e del diritto contemporanei.
È perfino probabile che al severo giudizio dei nostri contemporanei non sia estraneo un certo sciovinismo culturale secondo cui è vero giusto e adeguato solo tutto ciò che nuovo e moderno.
A questo punto devo confessare una cosa: io avevo cominciato a scrivere quest’articolo con l’idea di difendere e di sostenere la richiesta dei singoli a poter adottare un figlio. Il motivo era sempre quello: meglio un solo “genitore” che niente; meglio una madre che nessuna madre, meglio un padre che un istituto o un orfanatrofio. E su questo non potrebbero esserci dubbi. Ma se è vero, o se fosse vero quello che si legge sui giornali o sui siti cattolici che a migliaia, o addirittura a decine di migliaia di coppie di genitori sono in attesa, o restano in attesa di un’adozione per mancanza di bambini “adottabili”, ecco che l’argomento in questione cadrebbe da solo.
O non sarà piuttosto, mi chiedo allora, che qui si va riproducendo la situazione che fa sì che migliaia, centinaia di migliaia di appartamenti o case restino sfitte, disabitate, magari vanno in rovina perché i proprietari (tra cui anche parrocchie e diocesi) non li affittano più perché le leggi rendono poi impossibile ogni recupero della disponibilità degli immobili affittati? Summum ius, summa iniuria, dicevano già i latini. A forza di garantir diritti inesistenti, quanti abusi si favoriscono o anche solo si consentono? A scapito poi di chi ha veramente bisogno.
Vien fatto spesso di pensare che la stessa cosa accada per le adozioni: bisogna garantire i bambini e bisogna garantire i genitori carnali e bisogna garantire i genitori adottivi, giusto! E allora giù!, carte su carte, perizie su perizie, ricorsi su ricorsi, controperizie su controperizie, controricorsi su controricorsi, tribunali dei minori conto TAR ecc.ecc.
Intanto passano i mesi, e «gli anni passano e i bimbi crescono e le mamme imbiancano» e gli aspiranti genitori superano l’età canonica, o si stancano di aspettare e lasciano perdere tutto… e i bambini restano nell’istituto, e s’invecchiano anche loro, e s’incattiviscono e diventano intrattabili, e quando poi dovranno lasciare l’istituto potranno essere facili vittime di cattive amicizie e di abili lestofanti. È la vecchia, eterna storia del Gatto e la Volpe e dell’ingenuo Pinocchio e del “cattivo” Lucignolo.
Voglio chiudere con un ultimo pensiero, tratto sempre dalla stessa fonte ispiratrice, il card Martini : «la maternità e la paternità non si identificano semplicemente con la procreazione biologica, perché “nato da” non è sinonimo di “figlio di”».
Meraviglioso! I genitori secondo la carne non si possono scegliere. Quelli fanno “una certa operazione” ed ecco “CI SEI”!
Nessuno ti ha detto niente, nessuno ti ha chiesto niente, ed ecco “CI SEI”!
Frutto di consapevole amore o di sbaglio grossolano, di tenerezza o di lussuria, involontario incidente di percorso o odioso frutto di mercato o di violenza, però, comunque “CI SEI”! Solo più tardi saprai se dirti fortunato o se maledire quella notte, come Giobbe! In quest’ultimo caso tu sei carne da carne: sei “nato da”; solo nel primo caso sei “figlio di”. E se due ti scelgono fra i tanti e decidono di chiamarti “figlio”, allora tu sarai in tutto “figlio di” chi ti ha scelto!
Ultimissima: Ho letto che i bimbi negri non li vuole nessuno: Mi è venuto in mente un verso:
«negli occhi bianchi /
di quel bimbo nero
mi sono specchiato…
non mi sono piaciuto
».


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