L’infallibilità del papa nel tempo della crisi

Sono passati 140 anni da quando il Concilio Vaticano I, voluto da Pio IX, proclamò uno dei dogmi più controversi e meno amati della storia, quello dell’infallibilità del romano pontefice in materia di fede e di morale.
Assolutamente estraneo alle diverse confessioni protestanti, respinto da tutte le Chiese d’Oriente non cattoliche, fu esso stesso causa di uno scisma ad hoc a causa della separazione dei così detti Vecchiocattolici, i quali si rifiutarono di accogliere il nuovissimo dogma tra le verità “da credere”. Tanto più che questo dogma faceva il paio con l’altro del primato del romano pontefice sulla Chiesa universale.
Era il tempo della breccia di Porta Pia, la fine del regno pontificio, la perdita di quei supporti temporali nei quali la Chiesa di Roma aveva per tanto tempo cercato le sue garanzie di libertà e d’indipendenza per la sua opera soprannaturale.
Ora all’improvviso tutte queste condizioni e garanzie parvero venire meno, e la reazione dell’anziano papa furono assai gravi: con il decreto Non expedit (1874) il papa fece del colle Vaticano, un’anteprima di quello che sarà l’Aventino per gli oppositori del fascismo. Con quel famoso decreto, veniva fatto divieto ai cattolici italiani di prendere parte attiva alla vita pubblica (politica) del nuovo Regno d’Italia, ormai unificato sotto la bandiera sabauda. Ciò che significò lasciare tutta la cosa pubblica in mano ai “nemici”.
Furono anni tristissimi per la Chiesa italiana, quelli che seguirono. Liberalismo, massoneria, socialismo nascente, capitalismo selvaggio e ancora senza antidoti, sul piano secolare e politico; positivismo, scientismo, idealismo, marxismo, nichilismo, agnosticismo sul piano filosofico: davvero si poté avere l’impressione che tutte le potenze dell’inferno si stessero scatenando contro la sempre più minacciata navicella di Pietro.
In queste condizioni di estrema difficoltà alla Chiesa parve che la cosa migliore da fare fosse di ribadire tutta la sua fede sulla solidità della roccia di Pietro, e di riaffermare davanti al mondo il suo ruolo di pietra angolare. In questo senso andavano tutte le prese di posizione della Santa Sede, cui il mondo rispondeva col disinteresse e col disprezzo: tali il Sillabo e l’inasprimento dell’Indice dei libri proibiti.
Al contrario, il concilio Vaticano II non ha voluto proclamare nessun dogma, né ha mai fatto ricorso a una dichiarazione in cui fosse impegnata la sua “infallibilità”. Sembrò una scelta in linea con la sapienza e la profezia del grande papa Giovanni XXIII, il papa buono e umile che in tutta la sua vita pontificale mai cercò qualcosa che potesse incoraggiare la contrapposizione, cercando piuttosto sempre ciò che poteva favorire l’incontro e l’unità sia fra le chiese, sia fra le diverse istituzioni secolari. In quei brevi cinque anni la Chiesa parve respirare un’aria nuova e il mondo intero parve risentire di quella novità. Ma la tentazione del vecchio spirito non tardò a riprendere il sopravvento.
Il primo segnale fu dato in occasione del dibattito conciliare sulla “pillola” anticoncezionale. Il dibattito, appena aperto fu interrotto per iniziativa del nuovo papa Paolo VI che, motu proprio, aveva riservato a sé la decisione sulla scottante querelle.
La commissione istituita ad hoc produsse un testo che fu al centro di un acceso contrasto fra la maggioranza che dichiarava disponibilità all’uso della pillola anticoncezionale, e la minoranza “romana”, assolutamente contraria all’uso della stessa. La questione fu risolta da Paolo VI con l’enciclica Humanae vitae, con la quale il papa confermava la illiceità dell’uso della pillola, se assunta al solo scopo di limitare le nascite. In questo modo diede riconoscimento e prevalenza alla scuola romana.
Di questa contrapposizione e del suo esito si interessò il teologo Hans Kueng, nel suo famoso libro Infallibile? Una domanda (1970).
Egli fa della vicenda dell’enciclica l’occasione per un approfondito esame dell’intero problema dell’infallibilità e della sua applicazione al problema del controllo delle nascite. La sua lettura della vicenda è acuta e interessante.
Quanti avevano auspicato un’apertura all’uso della pillola, concentrarono i loro sforzi su una lettura larga e possibilista della sentenza. In breve: la dottrina dell’enciclica è chiara e univoca, ma non è tale da escludere una possibile evoluzione in un senso più ampio. In altre parole: per ora resta proibita, però, non trattandosi di materia di fede ma di disciplina e di morale, non implica un giudizio definitivo e infallibile, e dunque irriformabile, dell’intera questione. Se ne potrà discutere ancora. Questa fu la tesi che mons. Ferdinando Lambruschini, relatore ufficiale nella presentazione dell’enciclica propose del documento pontificio. Per tutta risposta egli si vide “promosso” alla cattedra arcivescovile di Perugia. Come a dirgli: così impari a parlare.
Hans Kueng offre dell’intera vicenda una lettura interessante: ciò fu possibile perché la scuola romana riuscì a trasferire la questione dal piano prettamente morale, a quello dommatico dell’ecclesiologia, facendone l’oggetto d’un dibattito sull’infallibilità.
Secondo il grande teologo: Paolo VI commise un errore di valutazione o forse un’imprudenza: egli pensò che spettasse a lui, alla suo impegno, al suo magistero di pastore dare una risposta teologica al problema morale sulla liceità della pillola.
Ma subito per lui il problema si trasferì sul piano dommatico: la Chiesa ha sempre condannato un uso del sesso che escludesse positivamente il concepimento della vita. In questo senso andava soprattutto l’enciclica di Pio XI “Casti connubii”. Ora: può mai la Chiesa avere sempre errato su un problema di tale importanza. Inconcepibile per la scuola romana e, dietro a lei, per Paolo VI.
E poco importava che nel frattempo il valore della sessualità fosse andata evolvendo in altri significati: che non potesse più essere vista solo come produzione di vita, né solo come remedium concupiscientiae (uno sfogo al bisogno dei sensi), perché intanto la gioia dei sensi era diventata un valore in sé stessa e soprattutto il sesso veniva visto come pienezza del sentimento umano dell’amore: l’amore ha bisogno d’esprimersi per sé stesso, con figli o senza figli di mezzo. L’uomo e la donna che si amano hanno sempre bisogno di dirselo, senza che per questo sia necessario prevedere e accettare un figlio. E senza dover aspettare, per poter fare questo, che sia trascorsa l’età feconda della donna.
Di mio aggiungerei una cosa: Non sarà per caso che quando un papa parla “da teologo” egli cessa per ciò stesso d’essere Pietra (Kefa) per diventare solo un teologo? A un papa teologo è proprio consentito di pensare che i suoi scritti di teologia ricevono l’imprimatur direttamente dallo Spirito Santo? Per tornare a noi: non sarà che qualcuno possa aver smarrito gioia, confidenza e amore nella pratica dei sacramenti (matrimonio, confessione, comunione) a causa di un giudizio maldestro di teologia dommatica? E per quanti cristiani dei nostri giorni, questo giudizio si traduce in fuga dai sacramenti del matrimonio, della confessione e della comunione?


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