L’ambigua forza dei simboli

Quindicimila camici bianchi in piazza San Pietro, attorno a un uomo anche lui vestito di bianco, sotto il sole di giugno in un giorno di grande festa: la festa dei preti cattolici di tutto il mondo, in una cornice che si voleva trionfale, per un grande messaggio da mandare al mondo: al mondo cattolico prima di tutto, e poi a tutti coloro che ancora del mondo cattolico si interessano, sia che lo guardino con simpatia sia che lo guardino con antipatia. sospetto, avversione.
Un messaggio? Forse non è esatto. Più corretto sarebbe parlare di più messaggi, tanti quanti erano i destinatari degli stessi. Vorrei provare a elencarli quei destinatari e a “leggere” quei diversi messaggi, o almeno a tentare di offrirne una lettura.
Il primo messaggio era evidentemente indirizzato ai presenti e voleva essere quanto di più eloquente, confortante, consolante si potesse concepire: “Ecco, vedete? Ci siete, ci siamo; voi, preti di tutto il mondo, con il vostro papa: siamo qui a confermare, a ribadire la nostra fede e la nostra fedeltà al mandato, all’impegno, al celibato. Siamo diventati preti perché ci siamo sentiti chiamati, siamo rimasti preti perché ci sentiamo ancora chiamati, rimarremo preti perché rimarremo fedeli a Colui che ci ha chiamati. Se avvenimenti recenti, drammatici e dolorosi, hanno potuto mettere in dubbio la serietà del nostro impegno, noi siamo qui per riconfermare, davanti alla Chiesa e al mondo intero, la nostra fedeltà agli impegni della nostra ordinazione. Se odiose macchie di peccato son venute a lordare la nostra veste sacerdotale, noi siamo qui per immergerle e lavarle in quell’acqua viva che è sgorgata, assieme con le sue ultime gocce di sangue, dal costato trafitto di Cristo sulla croce. Anche se noi da quelle colpe infamanti, ci siamo tenuti lontani, noi intendiamo qui lavare con le nostre, anche le loro “albe” insozzate, perché attraverso la penitenza, possano anch’essi tornare a risplendere del candore e della gloria della loro ordinazione. Chi non ha saputo imitare il nostro santo Patrono Curato d’Ars nella sua innocenza, lo imiti almeno nella penitenza.
Un secondo messaggio era rivolto a tutti i cristiani che vivono quotidianamente le gioie e le passioni della Madre Chiesa.
“A voi, cari figlie e figli che amate la Chiesa e trepidate per lei e per le prove che deve subire e patire a causa dei suoi figli infedeli. Ecco, guardate questi quindicimila camici candidi che sotto il cielo di Roma offrono al Padre il sacrificio perfetto dell’adorazione, dell’obbedienza e della lode. Essi sono l’immagine più vera e più eloquente della Chiesa che voi amate come l’amiamo noi, per la quale soffrite come soffriamo noi. Questa è la Chiesa nella quale voi credete. Certo, anche questa Chiesa, come sempre è stato nella storia, non è ignara di peccato: “sancta et meretrix” l’hanno detta i santi, e della sua santità e del suo meretricio tutte le stagioni, dopo l’eroica, breve stagione delle origini, hanno fatto esperienza. Se, comprensibilmente, lo sguardo di chi non ha fede si poserà soprattutto sulle macchie che lordano il candore della sua tunica, noi che l’amiamo, ci preoccuperemo, soprattutto, prima di tutto, di lavarla affinché quelle macchie scompaiano e la gloriosa “alba” sacerdotale torni a risplendere del suo candore.
Il terzo messaggio è diretto a quanti guardano alla Chiesa con occhio scettico o malevolo, o addirittura ostile. A quanti si augurano che i giorni della Chiesa come potenza morale siano ormai contati.
“Una risposta anche a voi, che vi siete gettati su questi scandali come avvoltoi sui cadaveri, anzi come iene sull’animale morente. No, la Chiesa non sta morendo; forse vi appare fiaccata, ma, vedrete, saprà ancora riprendersi dalla grave malattia che l’ha colpita. Ve lo diciamo con sicurezza, perché il nostro Medico è Lui, il Signore della vita, Lui che ci ha promesso: «Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo» e, ancora, «le forze dell’inferno non prevarranno su di essa».
Ancora un quarto messaggio: “E ora a voi, che avete tradito le promesse e siete venuti meno agli impegni e alle promesse del vostro sacerdozio, che avete imbrattato la sacra veste sacerdotale e quella del vostro battesimo con le lordure più abiette e vergognose e avete impresso sulla carne di tutta la Santa Chiesa le ferite più difficili da curare e le cicatrici più tenaci e ardue da ridurre e ricomporre. A voi, che avete abusato dei sacramenti a voi conferiti, facendone un trampolino di lancio verso traguardi altrimenti negati alla vostra concupiscenza (come avete fatto con il sacramento della Penitenza) per provocare, per sedurre per abusare dell’innocenza e della buona fede dei vostri fedeli, e specialmente di quei “piccoli” dei quali è detto che sarebbe stato meglio, per chi avesse dato loro scandalo, «che si fossero legati al collo una macina di mulino e si fossero gettati nel mare». Voi non ve la siete legata al collo, e ne avete invece legata un’altra, ancora più atroce e pesante, al collo degli innocenti, per farne scempio di lussuria”.
Questi i quattro messaggi che ho saputo leggere in quel segno di Piazza San Pietro sotto il sole di Roma.
Ne ho cercato anche un altro, e non trovandolo lo aspettavo dalle parole del papa, ma neanche lì l’ho trovato. Questo.
Ho sentito il papa chiedere “perdono a Dio e alle vittime degli abusi”, ma non l’ho ancora sentito chiedere perdono ai pedofili per gli abusi che sono stati commessi su di loro, quando, undicenni, tredicenni o comunque a pubertà non ancora conclusa sono stati chiusi in seminario, isolati dal mondo e perfino dalla famiglia, coltivati in serra per paura delle gelate e dei colpi di sole, della siccità e dalla grandine, per poi ritrovarsi abbandonati a sé stessi in un mondo che non conoscevano, da cui erano stati solo abituati a fuggire: ma a questo punto c’erano dentro e non potevano più evitarlo. Quel mondo non avevano imparato a conoscerlo, ad amarlo e a sapersene anche difendere, prendendo le opportune precauzioni. Fuggire, fuggire, fuggire: questa la summa di tutta l’ascesi che veniva loro insegnata. Così quando non hanno più trovato vie di fuga sono rimasti inesorabilmente intrappolati. Era sempre andato avanti così, sento a volte rispondermi, e quel sistema aveva creato innumerevoli santi. È vero, ma non s’è tenuto conto che intanto il mondo era cambiato.
Ecco, mi sarebbe piaciuto vederne alcuni lì, liberamente, spontaneamente presenti, in segno di penitenza, vestiti magari di “cenere e sacco” il l’antico abito dei penitenti, e avrei voluto vedere il papa andare incontro a loro, abbracciarli e chiedere loro perdono per il male che la Madre Chiesa aveva fatto loro quando a undici, dodici, tredici anni, li aveva sottratti alla famiglia per educarli a “modo suo” come “eunuchi per il regno dei cieli”, prima ancora che lo fossero per libera e consapevole scelta. E chiedendo loro perdono, avesse loro concesso il suo.
Ecco. questo io non l’ho visto, non l’ho sentito, e non ho saputo neppure leggerlo nel muto, ma eloquentissimo, linguaggio dei segni. Mi è mancato.


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