La resurrezione secondo… me

Il giorno di pasqua Adriano Sofri ci ha regalato un articolo di cui bisogna essergli grati. Una riflessione appassionata e onesta, umana e sofferta, sul grande, poderoso problema della resurrezione.
Lui non crede alla resurrezione, io sì. Egli non offre le sue ragioni, ritenendole conosciute da tutti e ormai condivise dai più. Invece egli dà voce ad alcuni di quelli che alla resurrezione dei corpi (dimensione storica) e della carne (dimensione escatologica) credono e hanno il coraggio di dirlo: Tolstoi, Bonhöffer, Ravasi. Una fede magari tormentata, consapevolmente scandalosa, come il vangelo è scandaloso per la sapienza secolare.
C’è anche qualcuno che si rammarica per averla smarrita« e dichiara perciò una nostalgia per il dono della fede da cui è escluso».
È proprio qui che nasce, per il cristiano, il vero problema: cos’è più giusto, più vero e più liberatorio per l’uomo del nostro tempo, per l’uomo postmoderno, postcristiano, postideologico e post-molte-altre-cose, il credere o il non credere alla risurrezione dei corpi e della carne?
Credere nella risurrezione significa accettare di vivere «quei tre giorni, come una terra di nessuno – o piuttosto una terra di angeli e di donne – nella quale tanti continuano ad abitare, con speranza, con rassegnazione, o con lucidità». Costoro, saremmo tutti noi che ancora crediamo nella risurrezione, costituendo così un mondo che può convivere con il mondo di chi alla risurrezione dei corpi e della carne non crede più. Convivere ma non con-fondersi, come l’olio nell’acqua.
Sono due mondi che si confrontano e che, dopo essersi duramente contrapposti, sembrano oggi disposti, nelle loro parti migliori, a coesistere in una «convivenza quotidiana e volgersi, meglio che in tolleranza, in una mutua simpatia e comprensione». «Per fortuna», fa notare Sofri. “Per fortuna”, penso anch’io.
Ora però il problema va posto in termini più diretti. Il problema che molti cristiani di oggi si pongono, è un altro: risuscitò davvero Gesù da morte, o fu solo un’allucinazione, un errore, un dare corpo a una speranza, a una suggestione: la proiezione d’un mito? O magari, e peggio ancora, un calcolo, un disegno, un ambizione e dunque un inganno, una menzogna?
Sofri non crede alla resurrezione e le sue parole non potrebbero essere più chiare: «A che cosa non credono i cristiani non credenti? A una soprattutto: alla resurrezione. Non credono alla resurrezione di Lazzaro. Né a quella di Gesù, né a quella delle persone che hanno amato e perduto – né infine alla propria resurrezione». Egli non lascia mancare, al grandioso mito cristiano, la sua simpatia, ma la limita a quel tanto di antropologicamente ragionevole e magari sublime di cui quel mito è espressione: «I non credenti commemorano la passione e la sua replica infinita attraverso i secoli; il giusto calunniato umiliato e messo a morte. La morte perfeziona e completa la vita di Gesù».
Di questo notevolissimo brano, mi colpiscono soprattutto le parole iniziali: «A cosa credono i cristiani non credenti?».
Cristiani non credenti! Non è straordinario? Sofri non vi insiste neppure, come se avesse detto un’ovvietà: esistono, o quanto meno possono esistere, “cristiani non credenti”. Di questi non credenti egli sa che essi conservano l’attaccamento a feste, a parole, a miti cristiani. Feste, immagini parole svuotate certo di contenuti trascendenti, ma piene di contenuti umani di fratellanza, di solidarietà.
Potrà dunque esserci posto, in un domani non più lontano, per un cristianesimo di “valori” rinunciando ai dogmi? Sarebbe del tutto in linea con l’abusato aforisma crociano: «non possiamo non dirci cristiani».
Sofri sembra leggere in questa chiave le parole del teologo luterano Dietrich Bonhöffer, martire dei nazisti nel lager di Flossenbürg (1945): «Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua sofferenza». Dove Cristo è visto nella sua radicale umanità di sofferente, di vittima, di profeta dell’amore. Un profeta che promette ai poveri una beatitudine che non è di questa terra, ma una primazia nel cuore di Dio.
Devo ammettere che mi riconosco in questi pensieri e che da tempo mi trovo a camminare, qausi in solitudine, su questi sentieri.
Però io, a differenza di Adriano Sofri, credo nella risurrezione di Cristo, o, se dovessi usare termini più precisi, io vivo nella speranza e della speranza nella risurrezione di Cristo. Sapendo bene che nessuna verità di fede potrà mai essere apoditticamente dimostrata dalla nostra ragione (se ne fosse data certissima dimostrazione non potremmo più parlare di fede, ma di conoscenza), io confesso di sperare, con tutte le mie forze, nella risurrezione di Cristo. Di questa fede e di questa speranza io vivo. Da questa fede io traggo conforto e gioia per la mia vita. Questa fede io mi sforzo di testimoniare e di trasmettere agli altri.
Del resto, se non posso disporre di prove, non mancano ragionevoli ragioni alla mia fede.
Fra tutte, la prima è questa: dei Dodici protagonisti dell’annunncio (gli Undici più Paolo), ben undici hanno pagato con la vita la loro testimonianza. Tutti pazzi? O tutti testimoni: essi avevano visto il Risorto!
E la storia della santità nella Chiesa. Fatta di peccatori, e ora anche di preti pedofili? Non mi meraviglia che gli uomini possano essere bestie (chiedo scusa alle bestie); ciò che non saprei spiegarmi, è come un uomo possa farsi angelo.
Anche fra gli atei ci sono egregie persone? Certo, infatti Cristo è morto anche per loro. Da quando Gesù ha detto: beati i poveri», e: «amate i vostri nemici», l’umanità non è più stata la stessa. Perché la Parola di Dio, seminata nel mondo, cresce anche quando il seminatore dorme o bestemmia.


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