La Chiesa, la pedofilia, la tolleranza zero


Non amo sentir parlare di tolleranza zero. Tolleranza zero significa rigore, rigore e ancora rigore.
Lo confesso: mi fa male. Forse (tremo a dirlo) mi scandalizza.
Tolleranza zero andava bene sulla bocca dell’ex sindaco di New York, Giuliani, non sulla bocca di un vescovo, su qualunque gradino della scala gerarchica si trovi.
Non è questione di larghezza di vedute: è proprio questione di scelta di campo, fra due modi di essere e di porsi, fra due modi di pensare e di giudicare; e dunque di parlare.
Due diversi modi che forse rappresentano, ancor più radicalmente, due diversi mondi: il primo, quello della ragione umana e del diritto, l’una e l’altro ampiamente riconosciuti e condivisibili e di fatto condivisi dai più; il secondo, più audace, più di frontiera, perciò più discutibile ma, forse proprio per questo, più profetico: è il modello evangelico.
Il primo è il modo di parlare che fa riferimento al mondo secolare, civile. Chi potrebbe, umanamente contestarlo? Cosa c’è di più logico, di più condivisibile di un’affermazione così formulata: quanto più è grave il reato, tanto più severa e certa dovrà essere la pena. La Chiesa sa che, nei decenni di cui in questi giorni si parla (gli ultimi trenta/quarant’anni), il suo comportamento non è stato rispettoso di questo principio, da tutti accettato. E ora ne fa ammenda.
Essa riconosce di aver taciuto, occultato, negato la presenza della pedofilia come male diffuso nel proprio corpo: ha cercato di coprire e nascondere una colpa odiosa e spregevole, Ora la confessa. Un comportamento non certo commendevole, anche se ispirato “anche” da carità, nella speranza che sopravvenga poi un ravvedimento. Un’intenzione in sé apprezzabile, ma che ha potuto indurre la gerarchia a compromessi che hanno finito con l’incoraggiare la ripetizione e la moltiplicazione dei reati.
Ci sono state altre mosse sbagliate: la Chiesa, nel tentativo di rendere meno grave la sua posizione, ha sostenuto che i casi di pedofilia dei suoi preti rappresentano solo un’insignificante minoranza, in termini statistici, nel mare magnum di questa orribile piaga; e questo è vero. Pochi gioni fa, un’amica che lavora in una di queste case di recupero per bambini abusati o altrimenti disadattati, mi diceva che nella piccola casa dove lei lavora, sette ragazzi su nove sono stati abusati in casa e spesso non da una sola persona, ma da patre e frate e ziete, con la madre che nega tutto: ma quando mai, meschino?
Malgrado questo sia vero, ciò non giustifica niente e nessuno. La Chiesa, che ama definirsi esperta in umanità, non è lì per uniformarsi al mondo, ma per convertire il mondo; e cosa ci può essere di peggio per i suoi uomini che lasciarsi pervertire dal mondo?
Ma tutto questo è solo una premessa a ciò che mi sta veramente a cuore di dire. Perché, parlando in questo modo, la Chiesa rischia di non parlare a nessuno, risultando il suo dire privo di ogni afflato mistico, genuinamente spirituale.
Tolleranza zero si propone al massimo come un deterrente: può essere efficace per chi non ha ancora commesso il suo delitto, ma per chi il delitto l’ha già commesso, esso resta sterile. A lui devi offrire una via di riscatto, non soltanto una pena.
È l’eterno dilemma sul valore della pena e dei suoi fini. Qual è il suo scopo primario? Quello vendicativo o quello terapeutico? Ti si punisce perché anche tu abbia la tua parte di dolore, o perché tu capisca quanto male hai fatto e te ne penta e tu proponga di non più delinquere? Neanche uno Stato moderno si accontenta più della prima ragione; per la Chiesa è essenziale la seconda.
Eppure il discorso che fa oggi la Chiesa stenta a penetrare fra la gente.
Lo faceva notare, qualche giorno fa, il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian che lamentava la difficoltà che la Chiesa incontra nel far passare i suoi messaggi sul doloroso problema.
Certo, in questa storia la Chiesa si è mossa in ritardo, e solo quando è stata presa e trascinata per i capelli sul luogo del delitto, la Chiesa ha accettato di riconoscere le proprie responsabilità. È un po’ poco per aspettarsi un grande credito alle parole che ora dice.
Da che parte mi colloco? Mi spiegherò con le parole che raccontano un sogno che non ho fatto, ma che vorrei tanto si avverasse.
Io vorrei che domani mattina, sui giornali di tutto ilo mondo apparisse una notizia, a caratteri cubitali.
Una notizia così formulata: «Il papa ha indetto un Anno Santo sacerdotale, un Giubileo per tutti i preti, non esclusi i vescovi: pedofili e no, concubini e no, adulteri e no, omosessuali e no, collezionisti di appartamenti e no, arrivisti e no, carrieristi e no ecc. ecc.e no.
Un Anno Santo, un Giubileo al quale tutti i preti, non esclusi i vescovi, si sappiano invitati, specialmente quelli che sanno di avere i pesi più grossi sulla coscienza, sapendo che proprio a loro sarà riservata un’attenzione particolare, un amore specialissimo, perché il Papa vede soprattutto in loro quelle pecorelle smarrite, quegli ultimi, quei piccoli, quei poveri d’Israele, per i quali soprattutto, EGLI è venuto a dare tutto il suo sangue.
E se tutto questo fosse troppo, mi piacerebbe almeno che il Papa volesse muoversi lui, da Roma, non per andare a incontrare folle osannanti, ma per andare a incontrare questi suoi figli infelici, là dove si trovano: nelle loro celle (di prigioni o conventi che siano), nelle loro parrocchie o collegi o istituti dove che siano: magari non ancora raggiunti dalla giustizia degli uomini, ma già raggiunti dalla misericordia di Dio che mai non dorme.
E vorrei vederlo abbracciarli e chiedere loro perdono se la Chiesa non ha saputo educarli ai loro sublimi e tremendi ministeri, se ha imposto loro pesi importabili che han finito con lo sfiancarli e prostrarli; se non ha saputo comprendere che non tutti possono essere dei giganti di santità e che anche tra i giganti si nascondono dei Sansone a cui sarà sempre possibile tagliere i capelli, svuotandoli d’ogni resistenza al peccato e al male.
Ecco questo il mio sogno, in questa luminosa mattina d’aprile. Potrà mai realizzarsi?

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