Ne prenez pas la bêtise aux serieux, dicono i francesi. Purtroppo qui da noi ce lo scordiamo troppo spesso.
Cos’è la bêtise? «Stupidaggine, sciocchezza, scemenza, scimunitaggine, corbelleria, sproposito, scempiaggine, bestialità» questi i termini italiani per la parola francese in questione. Mi riferisco al caso di Andrea Rivera alla festa del 1° Maggio a S.Giovanni in Laterano. I fatti sono noti e non ci torno sopra. Per mancanza di spazio.
I commenti alla performance del comico sono stati quasi unanimi: «molto stupido stupido», «inopportuno», «linguaggio al di sopra delle righe», «un’indecenza incredibile», «fomentatore d’odio», «ironia un po’ banale e quasi inutile». Dalla sua parte solo il partito radicale e la trimurti di sinistra al gran completo. Poco importa. Il cachet del cantastorie crescerà di certo.
La Santa Sede ha reagito tramite il suo organo di stampa ufficioso, l’Osservatore Romano. Lo ha fatto in un modo piuttosto insolito per un giornale normalmente assai controllato nell’uso delle parole: «Anche questo è terrorismo. È terrorismo lanciare attacchi alla Chiesa. È terrorismo alimentare furori ciechi e irrazionali contro chi parla sempre in nome dell’amore, l’amore per la vita e l’amore per l’uomo. È vile e terroristico lanciare sassi questa volta addirittura contro il Papa, sentendosi coperti dalle grida di approvazione di una folla facilmente eccitabile». Avvenire, il quotidiano della CEI, gli ha fatto eco rilanciando la stessa accusa. La maggioranza della stampa italiana, ha trovato che le reazioni dei due organi di stampa cattolici siano state eccessive. Forse sarebbe bastato molto meno. Un po’ d’ironia, per esempio, faceva notare Giuliano Ferrara, sarebbe forse bastata.
A me la cosa ha dato fastidio. Parlo della reazione della Chiesa. Qui, il terrorismo non c’entra. Un eccesso verbale a questi livelli è assai più grave delle sconsiderate esternazioni d’un cantastorie di strada. Tutta la stampa italiana, con pochissime eccezioni l’ha fatto notare. E ciò fa male alla Chiesa. Sempre più si dà l’impressione di sentirci una cittadella assediata che cerca di rispondere con l’olio bollente alle palle incendiarie delle catapulte nemiche. E così va a finire che a far la parte dei cattivi siamo noi.
Ho avuto netta questa sgradevole sensazione andando a leggere qua e là sui blog le reazioni dei lettori all’episodio di Roma. Basta una rapida scorsa per percepire quanto vasta sia la palude nella quale stiamo rischiando di andarci a impelagare con i rigidi modi censòri che hanno caratterizzato la ‘politica’ della Chiesa negli ultimi travagliatissimi tempi. Che la Chiesa parli «sempre in nome dell’amore, amore per la vita e per l’uomo» è senza dubbio vero. E però mi chiedo: come mai allora l’uomo contemporaneo non lo sente più quest’amore che lo segue, che lo accompagna, che lo incalza, che lo ‘perseguita’ come solo un amante può perseguitare l’amata senza poter aver pace se prima non l’ha raggiunta e conquistata?
La verità è che non basta essere amati per sentirsi muovere ad amare. Molte tragedie hanno avuto origine da un amore non corrisposto, da un amore preteso e non accordato, o da un amore finito senza che l’altro riesca ad accettarlo. Quando un amore imposto si scontra con un amore rifiutato, lo scontro che ne deriva può micidiale e nessuna tragedia può essere esclusa. E come mai, mi chiedo allora, la Chiesa, che dai tempi del Concilio e di Paolo VI ama definirsi “esperta in umanità”, stenta così tanto a capire che non può pretendere nulla dalla sua offerta d’amore, perché chi non l’ama non può essere obbligato ad amarla? Non più, comunque, di quanto un uomo o una donna non può pretendere amore da colei o da colui che occupa tutte le sue potenze di cuore e di mente. Chiedere continuamente amore, pretendere amore, se talvolta raggiunge l’effetto desiderato, altre volte prepara solo tragedie: fino all’eliminazione dell’oggetto del desiderio o del pretendente importuno.
Oggi mi pare che sia proprio questo lo scenario che si va delineando: l’uomo moderno risponde agli inviti della Chiesa come la Carmen nell’opera di Bizet risponde al suo ex amante, ormai diventato il suo persecutore per amore: «no, je ne t’aime plus» io non ti amo più. Come il patetico Don José, la Chiesa chiede all’uomo dell’era dell’elettronica e della libertà assoluta di tornare a una fede e a una fedeltà assoluta ed esclusiva, e questi, come la Carmen con Don José, le risponde picche. Ha fatto l’esperienza della libertà, e ne canta in tutti i modi l’inebriante esperienza: «come è bella la vita errabonda: / per patria l’universo / e per (unica) legge la (propria) volontà! / E soprattutto, la cosa più inebriante (énivrante): / la libertà! Oui, la liberté!». Come Carmen, l’uomo dei nostri giorni, l’uomo postcristiano, ci ripete in tutti i modi, le parole di Carmen «io voglio essere libero!»: lasciami andare per la mia strada, seguire i miei gusti, i miei amanti, i miei capricci, perché no?, i miei vizi; di te, vecchia chiesa, io ormai so tutto e dei tuoi doni non so più che farmene. Di te e di loro sono stanco, perfino disgustato. Lasciami andare: le nostre strade ormai sono diverse.
Sono molti decenni ormai che la Chiesa, allarmata da questo nuovo scenario per lei inedito, inesplorato, va interrogandosi quali strade percorrere e a quali mezzi e modi ricorrere per recuperare credito e amore dall’amante ormai stanco di lei, e come don José tenta tutte le strade: la mitezza e la severità, le minacce e le promesse, il Dio misericordioso o il giudice severo, ma i risultati sembrano sempre deludenti. E se le adunate sono sempre più trionfali, le chiese parrocchiali sono sempre più vuote. E può venire anche lo sconforto.
E allora perché non tentare una via veramente nuova, ma che rientra nel tesoro eterno della Chiesa: la saggezza del padre di famiglia della similitudine di Gesù? Forse varrebbe meglio sapersi armare di pazienza e di umiltà e aspettare che la storia volga verso altre rotte e altre mete. Senza mai smettere di proporre, ma rinunciando a imporre per legge, per interdetti, per scomuniche: armi ormai spuntate contro l’uomo tecnologico e laico. Sapendo certo di aver ragione, la Chiesa può armarsi della pazienza del Padre nella parabola del figlio minore che se ne va dalla casa paterna, sognando una nuova vita «énivrante» meravigliosa, senza più vincoli e limiti, che altro non è, alla fine che l’eterna tentazione dell’Eden: siate voi Dio a voi stessi, padroni e normatori del bene e del male. Perché questa è ‘«a liberté!»
Che non sia proprio questa la strada maestra per ritrovare la via e la porta che ci permetteranno di rientrare nel cuore dell’uomo? Nel frattempo avremo bisogno di molta pazienza, di molta umiltà, di molta comprensione e di molta indulgenza. Sì, l’uomo tornerà a Cristo, ma prima vorrà fare la sua esperienza delle feste e delle prostitute, delle orge e del potere, magari della conquista del macro e del microuniverso. Poi, quando farà l’esperienza della fame e dei porci da parare, allora troverà da solo alla casa del Padre. Una sola speranza, per quel giorno: che tornando alla casa dalla quale s’era allontanato, il figlio rinsavito dall’esperienza del fallimento e del dolore, non abbia a incontrare sulla porta di casa la faccia scostante del fratello maggiore ma possa imbattersi subito nel Padre che stava lì ad aspettarlo, senza mai mandare a cercarlo, lasciandolo libero di fare tutta la sua strada, senza mai lusingarlo con le promesse né mai minacciarlo con i castighi e le profezie di sventura. Allora il figlio prodigo e sconsiderato rientrerà nella casa, che ne frattempo si sarà fatto in tempo a ripulire e a rendere ancor più accogliente di come l’aveva lasciata. E si potrà sperare che almeno per qualche tempo ci si fermerà. Contento.
Non prendete sul serio l’imbecillità
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