Pasqua di resurrezione di un segno di contraddizione

Che Gesù fosse un segno di contraddizione non lo scopriamo certo oggi, perché già Simeone, «uomo giusto e timorato di Dio» (Lc 2,25) sul quale «era lo Spirito Santo» (ivi), lo aveva intuito incontrandolo al tempio appena quaranta giorni dopo la sua nascita a Betlemme. Segno di contraddizione Gesù lo è sempre stato, da subito (vedi la diversa accoglienza dei pastori e dei magi da una parte e quella di Erode dall’altra) e fino ai nostri giorni. Giorni, i nostri, per lui non certo più facili di quelli che visse allora sulla terra, e che nel breve volgere di tre anni lo ha portato dal grande favore iniziale alla sconfitta totale del Calvario.
Non diversamente da allora, anche noi assistiamo ai trionfi di massa della Chiesa – chi non ha davanti agli occhi le oceaniche folle in tripudio cui ci aveva abituato Giovanni Paolo II – culminati nei giorni dell’apoteosi in occasione della sua morte – e, per contro, alla tristezza delle chiese vuote (il 17,5% frequenta domenicalmente la messa, secondo la recente inchiesta del patriarcato di Venezia, ma anche peggio va al Centro e al Sud). Tutto questo continua ancora oggi, e se gli appuntamenti con Benedetto XVI, romani e non solo, continuano ad attirare folle considerevoli di fedeli (ma anche di turisti e curiosi), le chiese continuano ad accusare perdite di presenze nella media. Non sarà la prima volta nella storia, questo è vero, ma le proporzioni del calo oggi sono imponenti.
Tale contraddizione assume però le sue dimensioni più vistose, e per molti aspetti più preoccupanti, soprattutto nell’atteggiamento e nel comportamento di quanti, pur continuando a dirsi e a pretendere d’essere riconosciuti come cristiani, non esitano a prendere decisioni e a compiere scelte che con la prassi e la tradizione cattoliche non hanno molto a che fare. Convivenze prematrimoniali ormai tranquillamente tollerate, anzi accettate dalle famiglie; aspirazioni del tutto condivise e perfino incoraggiate dalla famiglia per professioni assai redditizie sul piano del reddito e della gratificazione della vanità, dell’esibizionismo e del divismo, ma con un alto costo in termini di compromessi sul piano dell’etica e della morale. E poi, consenso a leggi in netto contrasto con la morale cristiana: divorzio, aborto, crisi della famiglia come vincolo sacro unico e permanente; o, peggio ancora, in fatto di ingegneria genetica e di eutanasia; si potrebbe continuare ma può anche bastare così.
Non può certo meravigliare la preoccupazione della Chiesa in presenza di una tale deriva che ne mette in discussione sia il ruolo sia la vocazione sia perfino la sua stessa ragion d’essere. E che la Chiesa abbia preso coscienza della gravità del momento e del pericolo, lo dimostra in abbondanza il continuo, pressante, fors’anche un po’ asfissiante ‘pressing’ del papa e della CEI che da qualche mese è quotidianamente presente sulle prime pagine dei giornali e delle trasmissioni d’opinione delle televisioni. Il quadro che ne risulta non è dei più sereni.
Da una parte la percezione dell’occasione propizia da parte di chi ritiene che sia venuto il tempo di farla finita una buona volta con il protagonismo e l’interventismo della Chiesa che minaccia il corretto esercizio delle prerogative di potere dello Stato laico: e se l’occasione appare essere quella buona, ecco che si moltiplicano le spallate per demolire ciò che resta della premoderna e addirittura medievale visione teocratica del potere, al fine di ricostruire, su quelle ingombranti macerie, il nuovo profilo della nuova ‘Città dell’uomo’: una città libera, aperta, luminosa, trasparente, gioiosa, ricca, gaudente (di quel gaudio che è proprio di chi vede realizzato il suo scopo e compiuta la propria opera).
Dall’altra lo stato d’animo un po’ angosciato (solo un po’?) di chi si sente città sotto assedio, minacciata da un’armata dalla potenza soverchiante oltre ogni nostro potere di resistenza. Già negli ultimi anni di Giovanni Paolo II questo stato d’animo aveva cominciato ad affacciarsi e a manifestarsi attraverso le sue parole e i suoi atteggiamenti. Tutto questo denuncia la percezione di un pericolo incombente che sta diventando preponderante in molte delle manifestazioni di Benedetto XVI che non lesina inviti ed esortazioni alla resistenza.
In questi giorni di ‘passione di Cristo e della Chiesa’, un elegante tema di dibattito si è sviluppato tra cattolici e laici a proposito del senso e del valore dei riti popolari della settimana santa (processioni, rappresentazioni sacre ecc.). Ha cominciato Francesco Merlo su la Repubblica, ha continuato ‘Radiotre mondo’ intervistando giornalisti, antropologi e vescovi, poi ne hanno parlato anche altri: hanno ancora un senso queste processioni di incappucciati, di autoflagellanti penitenti, di rappresentazioni viventi della passione? Non ho più spazio per continuare; dirò solo che queste cose che erano nate nel segno della vera devozione, oggi sono molto spesso gestite dalle pro-loco. Hanno cambiato natura e con la natura la pelle: spettacoli a favore del turismo e del business. Per la Chiesa non è un bel business (affare). Per i parroci, per i vescovi, una patata molto bollente da pelare a mani nude.


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