Verso l’anno nuovo, parlando di morte

Stanotte, alle 00,00 anche il 2006 era passato. Per il mondo, per la Chiesa, per l’Italia, per la nostra famiglia, per ognuno di noi. Ma chi avrà il coraggio di dire che il 2006 è passato, finito veramente, se i problemi che esso ha posto sono ancora tutti lì, sul tavolo: problemi di ieri che si ripropongono oggi e si riproporranno domani. Per il governo e per tutti i governi del mondo, per la famiglia e per tutte le famiglie del mondo, per la Chiesa e per tutte le Chiese del mondo.
È un’eredità tutt’altro che leggera quella che ogni-anno-che-finisce lascia all’anno-che-viene, quasi la sadica soddisfazione di dirgli: tu mi seppellisci, ma io ti avvelenerò la vita: intanto beccati ’sti problemi!
Questo è vero in Italia, dove lo sconfitto Berlusconi, prima di lasciare Palazzo Chigi ha provveduto a segare tre delle quattro gambe della poltrona su cui lui era rimasto seduto per cinque anni. Il nome del seghetto? Calderoli’s trash (porcheria). Questo è certamente vero in America dove il voto di novembre ha messo Gorge W. Bush di fronte al gravoso problema di dover governare senza più maggioranza al Congresso. E questo è certamente vero in Africa dove ormai la guerra è diventata quasi una endemìa che scoppia a giro, ora qua ora là, e quando non è guerra è guerriglia.
Quanto a Blair dovrebbe essere ormai agli sgoccioli, e nessuno lo rimpiange visto il crollo dei consensi che lo accompagna. Zapatero sta ancora lì a rappresentare un nuovo che non finisce di inquietare la parte cattolica (e non solo) della Spagna, ma dalla sua ha la faccia del bravo ragazzo; in Francia Ségolène Royal appare per molti versi più una scommessa che una certezza, la Merkel e Prodi sembrano navigare a vista in un oceano a visibilità di poco superiore allo zero (stando ai sondaggi a precipizio). E c’è da scommetterci: i loro problemi saranno tutti i nostri.
Ma lo strano di questo ultimo scorcio di fine anno sta nel fatto che in Italia non s’è fatto che parlar di morte. Di una morte fortemente voluta, quella di Welby; e di una tanto detestata quanto dignitosamente affrontata, quella di Saddam Hussein. Né l’una né l’altra passeranno senza conseguenze. Questo è certamente vero per l’Iraq dove la fallimentare politica di Bush non garantisce più niente né allo sventurato Paese che da oggi si ritrova un martire in più, né agli USA, né al mondo. Certo Saddam ha meritato quello che ha subìto, ma forse al mondo sarebbe stato più utile da vivo che da morto, sia perché la magnanimità ha sempre un ritorno maggiore, a lungo andare, della vendetta; sia perché la parte del boia non ha mai giovato a nessuno.
Neppure la Chiesa è uscita bene dal caso Welby: un caso che non ha ancora esaurito il suo potenziale di spaccature e di contraddizione. Esso è ancora là e continua ad agitare le coscienze sia dei laici sia dei cattolici. Io ho già scritto qualcosa sull’argomento e forse qualche lettore lo ricorderà. Ricorderà cioè che io mi auguravo che qualcuno facesse qualcosa per porre termine a quel supplizio. Non conoscendo allora le opinioni religiose del malato, dicevo che non mi sembrava giusto che un eventuale ateo dovesse vedersi imporre una legge che sembrava adattarsi solo alla parte cattolica.
Ora so che Welby si diceva credente, come la moglie. La moglie anzi ha chiesto il funerale religioso, ma il Vicariato di Roma gliel’ha negato. Tutti sappiamo che questo è apparso inaccettabile agli occhi della maggior parte dei cittadini italiani e degli stessi cattolici praticanti: un’ingiustificabile durezza e una dolorosa mancanza di misericordia da parte della Diocesi di Roma e del suo effettivo responsabile, il card. Camillo Ruini. Si è risposto che la Chiesa non poteva ignorare la grande risonanza mediatica del caso. Welby era diventato un simbolo, una bandiera in mano di chi ha tutto l’interesse per agitarla in vista d’una nuova legge di civiltà, come si ama dire bluffando (come il divorzio, come l’aborto): una legge che introduca l’eutanasia nel codice civile, depennandola dal codice penale. Che questa sia la vera ragione del rifiuto del Vicariato di Roma non può esservi dubbio. Si è avuto il timore di issare la bandiera sul pennone più alto della nave, quasi un segnale di disponibilità e di cedimento. S’è voluto che fosse ben chiaro che non ci si può attendere nessun ripensamento da parte della Chiesa.
Così l’anno si chiuderà con tanti cattolici che si chiedono in che senso si debba prendere la parola della Chiesa quando parla di misericordia e questa domanda sarà trasmessa pari pari al nuovo anno. Non sarà un guadagno per la Chiesa. E se qualcuno mi volesse chiedere se so che l’accettazione della propria sofferenza può essere la forma più sublime di valorizzazione della vita, risponderei così: personalmente prego Dio di rendermene capace se dovessi mai affrontare questa prova. Ma se posso auspicare che siano molte le anime disposte a offrire il proprio dolore come un sacrificio, questo eroismo non lo posso imporre a chi non ha la mia fede. E poi le cronache dicono che poco prima di morire Piergiorgio aveva chiesto perdono per il suo gesto. Non so quanto la cosa sia esatta, ma se c’era anche un minimo indizio che questo potesse essere vero, sarebbe dovuto bastare per far suonare a festa le campane per annunciare che un figlio era ritornato al Padre. Poi, avremmo lasciato il giudizio a Lui!
Finisce male il 2006 per la Chiesa minor che siamo noi; così come s’era aperto male, sempre per noi piccoli: con il rifiuto opposto ad Arturo Paoli, il 94enne piccolo grande fratello di Charles de Foucault di averlo alla marcia di Pax-Christi di fine-inizio anno 2005-2006 a Trento. Un uomo mite, che per almeno una-due generazioni di cattolici era stato un punto di riferimento per tanti negli anni del rinnovamento conciliare.
Caro 2007, possa tu esserci più lieve!


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