Ancora su frate corpo: altrimenti visto


Di Frate corpo ho già parlato tre settimane fa, su questa colonne. Ora ne riparlo perché in qualche modo coincide con qualcosa a cui sto lavorando in questi mesi e che mi impegna molto. Un libro dal titolo: Il Matrimonio oltre. Oltre che? Oltre la prassi attuale, oltre la tradizione, oltre la sua storia, oltre la sua teologia, oltre tutto ciò che si fa si dice e si pensa sul matrimonio nel momento storico che stiamo vivendo. In questo titolo tutto gira intorno a quell’OLTRE.
Il problema. La nostra è un età in cui gli omosessuali delle diverse tipologie, gay e lesbiche, bisex e transessuali, vanno rivendicando diritti umani che altri invece gli negano. I cattolici, per lo più, si collocano fra i negatori. Nel mio libro io cercherò di offrire alla Chiesa una possibile traccia di approccio al mondo in questione, perché la sua rigidità non rappresenti un problema per la fede di quei nostri fratelli.
Matrimonio oltre vuol essere proprio questo: un passo o in avanti verso un nuovo punto di incontro, verso un cambiamento di pensiero, di condizione, di giudizio.
Ora torniamo al punto di partenza, al Frate corpo del titolo. Trattandosi di Francesco, ti aspetteresti solo un parlar d’amore, ma poi ci siamo imbattuti in un frate asino riferito al corpo stesso del Santo che non poteva non colpirci. Escluso si trattasse d’un complimento. E trovarlo in bocca a uno che chiama sora (sorella) anche “nostra morte corporale” non potevamo non restarne colpiti. Così m’ero riservato di tornarci sopra. Oggi mantengo la promessa.
Perché nel libro in preparazione, sto lavorando su un punto estremamente delicato. Pericoloso. Una specie di campo minato. Vi parlo anche di un’eventuale concessione del sacramento dell’eucaristia alle nostre sorelle e ai nostri fratelli omosessuali, non importa se gay o lesbiche, se bisex o transessuali. Come pure alle nostre sorelle e ai nostri fratelli divorziati e risposati: tutta gente che gira intorno al problema, esaltante e distruttivo come pochi al mondo, del sesso.
E nei confronti di questa grande famiglia che a vario titolo e con vari nomi rientrano nel mondo omosex, la nostra responsabilità di cattolici non è certo poca cosa.
Se è pur vero che per la stragrande maggioranza di loro la religione ha ormai smesso da un pezzo di costituire un problema, non di tutti è così. Ce ne sono di quelli che ancora aspettano un segnale, una parola di speranza, che consenta loro di dire d’essere ancora cristiani, ancora nella Chiesa e di sentirsi ancora tra fratelli e sorelle quando sono in chiesa e sentono parlare di Lui, del Suo amore per noi, dunque anche per loro.
Del sinodo sappiamo una cosa certa già da adesso: in quei 21 giorni di sinodo si troveranno a confronto, su questi temi cruciali e spinosi, le due grandi eterne anime della Chiesa cattolica: l’anima del rigore e l’anima della misericordia (i laici chiameranno la prima conservatrice, la seconda progressista). Sono le stesse che cominciarono a confrontarsi già ai tempi degli apostoli: corifeo per i primi Giacomo d’Alfeo, fratello del Signore e, per i secondi, Paolo di Tarso il convertito. In mezzo c’era Pietro, garante e simbolo dell’unità della nuova comunità, ma più d’una volta incerto fra le due diverse letture dell’unico vangelo di Gesù Cristo, quasi sempre su una posizione mediana: sintesi per i benevoli, compromesso per i critici.
Da allora la Chiesa è andata avanti sempre così, ogni volta che s’è trovata a scegliere su questioni decisive per la sua stessa vita. Bisogno e ricerca di mediazione che sono anche alla base dei tanti, spesso gravissimi, inescusabili ritardi nelle sue decisioni più importanti: ritardi che quasi sempre sono stati causa delle tante sconfitte e perdite di consensi e di prestigio accusati dalla Chiesa nell’evo moderno, cominciando dagli uomini di pensiero e di scienza, fino alle classi più povere e umili. Unica eccezione di rilievo fu la grande fiammata dovuta alla grande ventata profetica portata da papa Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II, l’unica volta, in tutto l’evo moderno, in cui la Chiesa s’è trovata in anticipo sulla storia e sul mondo. Papa Giovanni: il vero unico precursore di Papa Francesco sulla via della riforma più attesa e necessaria e non più rinviabile del cristianesimo dei nostri giorni.
Ma è ora di tornare al nostro povero e meraviglioso corpo, il corpo umano, che san Francesco ha trattato con tale durezza e severità da renderci perfino impossibile non soltanto imitarlo, ma quasi perfino capirlo.
Chi ha visitato il luoghi francescani più classici, Rivotorto, Santa Maria degli Angeli, le Carceri – il piccolo eremo sul monte Subasio –, la Verna, Greccio, Fonte Colombo e i tanti altri luoghi minori dove egli ha sostato nella sua vita, si rende subito conto di quanto improbabile avrebbe potuto essere una sua vera integrale imitazione. I francescani stessi, per primi, hanno provveduto a rendere più abbordabile, per la fragilità umana, una sua imitazione, rinunciando fin da subito a una imitazione alla lettera. Sicché finirono anche loro per possedere conventi, biblioteche, edifici, terreni in misura e quantità anche ingenti; sicché pochi ordini religiosi hanno conosciuto tanti tentativi di riforma (fino ai nostri giorni) per ritrovare lo spirito originario francescano, lo spirito delle origini. Segni non dubbi questi, di veri sensi di colpa.
In realtà pochi corpi nella storia sono stati trattati peggio di quello di Francesco da parte e per opera del suo stesso “padrone”. Dormire sulla nuda terra, spesso sulla pietra, con una pietra per cuscino, spostarsi sempre a piedi nudi (il famoso cavallo di san Francesco), digiuni a non finire, mangiare immangiabili brodaglie, avanzi di cibi destinati diversamente agli animali. E poi: ripararsi nelle fenditure della terra o nelle grotte; gettarsi nudo fra le spine di un roseto spinoso per sottrarsi agli impeti della sua giovane carne… Quanti avrebbero potuto seguirlo su questa strada, scomparsi i primissimi seguaci che ne avevano attinto la forza e la costanza solo dalla diuturna frequentazione con l’inimitabile modello?
Da dove tutto questo rigore verso la sua povera carne? Mi immagino che tutto ciò poté trovare la sua origine solo dall’aver percepito la sua stessa carne come pericolosissima nemica della sua anima. Ogni concessione fatta alla carne come un furto ai danni dell’anima immortale. Se il corpo è nemico dell’anima, ogni detto al corpo è un furto ai danni dell’anima. Il corpo rimaneva un bene prezioso solo perché mezzo di locomozione, di lavoro e di severissima penitenza. Un corpo dunque per andare da un posto all’altro, per il lavoro, per predicare, ma soprattutto per soffrire, per fare penitenza. Animale da soma e da lavoro. Frate asino, appunto: che come ogni asino va guidato, frenato, frustato, bastonato, colpito di santa ragione se non vuol obbedire al padrone, all’anima dunque. Questo fu per Francesco Frate Asino.
Ho riflettuto spesso nella mia vita, specialmente quando frequentavo Assisi per l’insegnamento di liturgia, trovandola così meravigliosamente bella, adagiata com’era sul pendio nord-ovest del Monte Subasio, passeggiando per qualche minuto, fra un’ora e l’altra, sotto le sublimi arcate del suo loggiato. Piccola scuola, la mia, mi dicevo, ma certo la più bella del mondo.
Ora però sento crescere in me, il carico poderoso di quel Frate asino, che non riesco a condividere.
Perché l’esperienza del mio corpo, in me, è stata un’altra. Non mi sono mancate malattie e sofferenze. Ma non sono mancate neppure le gioie, neppure tutte sante ma, come accade spesso fra gli uomini, a dividersi la mia vita tra bene a male, fra gioia e dolore. Ma m’è successo spesso, di trovarmi nella necessità di dover cantare grazie al mio Signore, anche in presenza di qualcosa di meno santo, quando da quelle occasioni ho ricevuto luci che sono valse a illuminare le zone più buie e fosche della mia povera esistenza. Peccati? Non sono mancati. Non avrebbero potuto mancare se non è sterile letteratura dire che ogni uomo è peccatore. Io lo sono stato e lo sono ancora. Ma se appena scavo sotto quei peccati, trovo Lui. Sto bestemmiando? Spero che la mia sia una preghiera.