Femmina o donna? Su un neologismo infelice


Femminicidio. Ci mancava. Il neologismo di cui ci sentivamo privi, ora finalmente c’è.
E dev’essere anche una cosa seria se Matilde Paoli (dell’Accademia della Crusca) le dedica ben 18.600 battute.
Così veniamo a sapere che negli ultimi tempi si parla molto di femminicidio, meno di femmicidio (spagnolismo centroamericano) e di femicidio (origine anglofona). Ormai li troviamo anche nei dizionari. La studiosa vi legge un vero «rovesciamento di prospettiva, una sostanziale evoluzione culturale e giuridica».
Di strada se n’è fatta: fino al 1981 in Italia è esistito il delitto d’onore: garantiva una consistente diminuzione di pena a chi uccideva moglie sorella o figlia rea di grave colpa sessuale: «l’oltraggio arrecato all’onore è ben più grave rispetto al delitto riparatore».
La studiosa fa notare quale forza d’urto, a questo proposito possano avere notizie come quella della bambina indiana di sei anni, stuprata e poi soffocata e gettata tra i rifiuti. Un estremo caso di usa e getta applicato su una bambina. Il popolo è insorto contro “il mostro”.
Essa fa anche notare che è importante, ai fini dell’efficacia della comunicazione far capire subito al lettore di chi e di che si sta trattando: a questa preoccupazione rispondono parole come fratricidio, sororicidio, matricidio, parricidio, uxoricidio, infanticidio, feticidio. Oggi c’è anche chi azzarda un omocidio, l’uccisione d’un omosessuale in quanto omosessuale.
Se femminicidio, nelle sue varie forme, ha già più di un secolo di vita, è solo alla fine del secolo scorso che lo si è voluto caricare d’un’intenzione speciale: la sottolineatura dell’uccisione di una donna solo in quanto femmina che si nega, che si sottrae, che si ribella al maschio che avanza intenzioni o pretese su di lei. Solo in questo caso si parli di femminicidio. Altrimenti si dica sempre omicidio.

Il termine ha avuto fortuna: chi lo usava nel 2006, lo «virgolettava» ancora. Oggi dilaga dovunque:su giornale e riviste, in radio e televisione. Fra poco sarà d’uso nazional-popolare.

Gli specialisti della lingua vanno oltre e distinguono fra femminicidio (per l’ assassinio di una donna); l’ anglizzante femicidio indica un’avversione che si fa cultura ginefobica: per esempio aborti forzati, asportazione non necessaria dei seni, sperimentazioni sui corpi delle donne; mutilazioni genitali sulle donne, procurare la morte o lasciar morire le figlie femmine di malattia, incuria, fame, allo scopo di privilegiare la cura del maschio, (in alcune regioni di Cina e India).
Vi sono forme più sottili, nascoste e indirette di femminicidio, proprie delle società patriarcali e rozzamente maschiliste: «Le donne [in Afghanistan] non possono lavorare, andare a scuola, frequentare i bagni pubblici, lavare vestiti al fiume, camminare da sole, viaggiare se non accompagnate da un maschio adulto della loro famiglia, calzare sandali che emettano suoni, essere assistite da un medico durante il parto. Questi divieti si sono tradotti in un femminicidio prolungato, per fame o per infezioni, ma non sempre indiretto. Presunte adultere sono state lapidate, presunte prostitute fucilate negli stadi (probabilmente vedove che non sapevano come sfamare i figli)» (Guido Rampoldi, Le prigioniere del burqa).
Un passaggio dello studio della Paoli mi introduce a quello che vuol essere il mio personale contributo al dibattito in corso.
Non a tutti piace il termine femminicidio. Molti lo dicono apertamente (io sono fra questi) e parlano di brutto neologismo, di termine brutto ma ormai corrente, di parola goffa e simili. Però alla fine tutti si rassegnano e si adeguano (io, ancora no).
Sono state tentate strade diverse, ognuna con i suoi limiti:
uxoricidio, dal latino uxor, moglie, dice troppo poco: non si uccidono solo mogli e conviventi;
muliericidio (dal latino mulier donna, moglie) e donnicidio: restano fuori bambine e adolescenti;
ginocidio e gendercidio, d’origine anglosassone, assenti dai dizionari. Più direttamente interessate al sesso della vittima.
Cosa ne penso? Che finora i tentativi hanno dato esito estremamente deludente, sia dal punto di vista fonetico (tutte parole dal suono orrendo e su questo tutti convengono) sia dal punto di vista del merito.
Si dice: il termine ha il grande merito di mettere in evidenza che la ragione prima e forse unica per cui si uccide quella donna è proprio il fatto d’essere donna, anzi femmina, una creatura che la natura (o Dio? fate voi), ha posto accanto all’uomo perché gli sia compagna: non lo dice anche la Bibbia che «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18)? Anzi perché gli sia sottomessa: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà (Gn 3,16)».
In queste condizioni, che cosa può aspettarsi la donna che pretenda di sovvertire l’ordine stabilito da Dio e dalla natura? Come potrebbe l’uomo assistere impassibile a un tale sovvertimento delle cose e della natura?
Si fa presto a dire progresso, cultura, scienza: qui ci sono milioni di anni di storia alle spalle, istinti trasmessi col DNA, e poi c’è tutta la storia della psiche e i suoi misteri profondi che solo da un secolo si è incominciato a indagare e va a sapere quante generazioni o secoli serviranno ancora per capirci qualcosa di certo. Pretendere che un maschio frustrato che non ha mai contato nulla, sappia o voglia rinunciare su due piedi a comandare sull’unico oggetto sul quale credeva di contare qualcosa, di possedere qualcosa che gli evitasse la delusione d’essere un nulla totale… e vedersi respinto, allontanato, rifiutato, abbandonato e non sapere dove girarsi per trovare un rimedio, un ricambio! O vedere che la tua donna vale molto più di te, che ti può dire in faccia “non ho bisogno di te, lasciami in pace, mi faccio la mia vita, tu fatti la tua se puoi, io me ne vado e tu stammi lontano…”!
A questo punto che posso fare io se non ammazzarla perché mi accorgo che lei non è più la mia donna, la mia femmina, il mio possesso, la mia sicurezza, il mio investimento sul futuro, il trofeo da presentare agli amici… e io mi ritrovo nudo, solo, senza casa, senza amore, senza speranza, senza figli magari… È questo il momento in cui il mio amore può trasformarsi in odio: odio profondo, totale, mortale. Allora, poiché tu non ti dai a me, io mi prendo te, con la forza, e poi magari t’ammazzo, così non sarai né mia né tua né di nessun altro. Ti coprirai la faccia con le mani intanto che t’ammazzo, stringerai forte le gambe che io separerò con la forza e con tutto il mio odio e il mio disprezzo… e dopo averti goduta e straziata per l’ultima volta t’ammazzerò e tu morirai che io ti sarò quasi ancora dentro e mi porterai con te, almeno per quello che ci avrò lasciato dentro, lo porterai con te nella tomba, con te all’inferno… Perché tu non hai più voluto essere la mia femmina: hai voluto essere tua, mentre la femmina in natura è sempre del maschio che l’ha conquistata, ma tu non hai più voluto essere una femmina, hai voluto essere donna, domina, signora, padrona. Ma io non ti lascerò mai la libertà di disobbedirmi, di ribellarti a me.
Ecco perché femminicidio non mi piace, anzi mi offende: perché tu non uccidi una femmina, tu uccidi una donna, una domina, una padrona: padrona di sé, della propria vita, del proprio cuore, del proprio corpo, e che vuol esserlo anche del proprio futuro.
Ecco perché femminicidio la trovo una parola volgare, povera, da maniscalco, senz’anima, da anima senza poesia. Abbiamo mica il greco a cui ricorrere, come abbiamo sempre fatto quando il latino non ci è bastato? Perché no questa volta?Abbiamo già una parola, nobile, una parola campione: ginefobia (Devoto, Avviamento all’etimologia italiana); basta copiarlo: ginecidio (per favore gine, non gino: Gino è un mio carissimo amico, lasciatelo vivere ancora!). E c’è pure un sacco di derivati, anche se nella forma genitiva: gineco-: il senso è sempre quello, femmina, ma l’uso medico-scientifico lo nobilita ai nostri orecchi.
Mi piacerebbe si risparmiasse alla lingua di Dante un simile sgorbio. Ancor più mi piacerebbe che non si dovesse mai più scriverlo.