Discorsi di varia umanità sulla via della croce


E qui Fabrizio de André accettò la sfida dei grandi pittori, da Pietro Lorenzetti (sec. XIV) a Renato Guttuso (sec. XX), che nelle loro Crocifissioni hanno tentato, molto spesso riuscendoci, a riprodurre in sedicesimo tutta la scala dei sentimenti umani di fronte al dolore, al male del mondo, alla ferocia umana, alla sofferenza innocente, all’odio implacabile, alla fedeltà fino al martirio. Gallerie di volti e di posture, dalle più sguaiate alle più intime e intense: ogni volto un cuore, un sentimento, una passione, una storia racchiusi in una lacrima o in un ghigno, in un gesto di pietà o di crudele sfregio.
15 quartine dalla metrica abbastanza regolare, con qualche libertà che il supporto melodico della chitarra rende accettabilissimo.
Cinque ritratti di gruppo, per quindici strofe raccolte in “insiemi” di tre strofe ciascuna, per cinque tipi umani, tutti di gruppo:
1. “i padri di quei neonati” i piccoli martiri di Betlemme trucidati da Erode il Grande;
2. le donne ebree, schiave dei loro uomini, “fedeli umiliate da un credo inumano”;
3. il gruppo degli apostoli, cui la paura “ha chiuso le gole alla voce”;
4. il gruppo dei sacerdoti “il potere vestito d’umana sembianza”;
5. qui sono due solitudini che si incontrano: le madri dei due ladri, le sole a piangere su quei due sventurati di cui nessuno si cura.

Un unico grande affresco come una tragedia in cui è messa in scena la tragedia della vita umana. Di ognuno di loro parlerò come di una unità a sé: con le tre rispettive strofe e il relativo commento.


I

Poterti smembrare coi denti e le mani,
sapere i tuoi occhi bevuti dai cani,
di morire in croce puoi essere grato
a un brav’uomo di nome Pilato.

Ben più della morte che oggi ti vuole
ti uccide il veleno di queste parole:
le voci dei padri di quei neonati,
da Erode, per te, trucidati.

Nel lugubre scherno degli abiti nuovi
misurano a gocce il dolore che provi:
trent’anni hanno atteso, col fegato in mano,
i rantoli d’un ciarlatano.

È la cosa più dura che De André ci fa leggere e ascoltare ne La Buona Novella.
«Poterti smembrare coi denti e le mani, sapere i tuoi occhi bevuti dai cani…»: sono i padri degli innocenti di Betlemme, tutti per uno solo, che poi sarà l’unico che gli sfuggirà. Per loro non vale l’obiezione: che colpa ne ha quel disgraziato in croce? Mica lui aveva ordinato l’eccidio!
No, certo, ma lui dice che chi lo ha salvato da morte quel giorno era suo padre: se un angelo è stato mandato ad avvisare Giuseppe, perché non è andato ad avvisare anche loro? O forse voleva vendicarsi perché nessuno di noi aveva aperto la porta alla gravida già nelle doglie del parto? Voi non avete accolto mio figlio: perché io dovrei salvare i vostri?
E allora stattene lassù, e anzi ringrazia pure Pilato che ti ha condannato alla croce, perché se fossi capitato in mano nostra, i tuoi occhi li avremmo voluti bere noi, invece dei cani! «Trent’anni hanno atteso, col fegato in mano”… Irresistibile il ricordo di Carducci davanti al castello di Miramare: quel «dio / Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta / e navigando il pelago col guardo / ulula: vieni! / Quant’è che aspetto!».
Ora finalmente la loro sete di sangue si placa nel vedere le sue membra fregiarsi “di rivoli viola”, nell’ascoltare “i rantoli d’un ciarlatano”.
L’odio ha memoria lunga, lunghissima!
E pensare che De André aveva saputo perdonare i suoi rapitori!


II

Si muovono curve le vedove in testa,
per loro non è un pomeriggio di festa;
si serran le vesti sugli occhi e sul cuore,
ma filtra dai veli il dolore.

Fedeli umiliate da un credo inumano,
che le volle schiave già prima di Abramo,
con riconoscenza ora soffron la pena
di chi perdonò Maddalena,

di chi, con un gesto soltanto fraterno,
una nuova indulgenza insegnò al Padreterno,
e guardano in alto, trafitte dal sole,
gli spasimi d’un redentore.

Ora sono di scena le donne, queste miti, pazienti, discrete spettatrici del dramma che si va svolgendo fra la terra e la croce, dalla quale ormai pende colui che ancora poco prima calpestava le pietre e i sassi del Calvario.
Non sono abituate a mettersi in mostra, e ora vorrebbero addirittura scomparire del tutto davanti a una scena che non avrebbero mai voluto vedere. Donne che sanno l’amore e l’umiliazione, che nascondono l’uno e l’altra sotto i veli ben tirati “sugli occhi e sul cuore”; abituate da sempre al disprezzo degli uomini, ora stanno lì a contemplare la pena e lo strazio di chi aveva saputo dar loro dignità e consapevolezza.
Perché esse lo saevano bene: se lui muore, è anche perché i maschi, da sempre loro padroni, non gli avevano mai perdonato d’aver lui rimandato viva un’adultera, d’aver infranto la loro legge che vuole morta sotto una montagna di pietre colei chi osa spezzare la catena che la lega al maritopadrone, e per aver contraddetto, lui, lo stesso Padreterno, pretendendo d’ insegnare anche a lui, che prima di ogni giustizia viene il comandamento dell’amore e del perdono.
Così, le “schiave”, finalmente liberate, avevano imparato ad amarlo sopra sé stesse, e in disprezzo della propria incolumità avevano osato seguirlo fin lassù, perché il loro “redentore”, morendo non si sentisse solo.


III

Confusi alla folla ti seguono muti,
sgomenti al pensiero che tu li saluti:
a redimere il mondo – gli serve pensare -,
il tuo sangue può certo bastare.

La semineranno per mare e per terra,
per boschi e città, la tua Buona Novella;
ma questo domani, con fede migliore,
stasera è più forte il terrore.

Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio:
gli apostoli han chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.

Qui De André incomincia a pizzicare una corda che gli è molto congeniale, rimasta fin qui trascurata: quella dell’ironia.
L’argomento si presta: De André non ha mai amato i sacerdoti. Ricordate nella scena di Maria bambina, quando i sacerdoti del tempio si accorsero che la “sua verginità si tingeva di rosso”? Gli apostoli non erano sacerdoti, ma lo sarebbero diventati; non del Tempio, d’accordo, ma i suoi seguaci avrebbero ricoperto il mondo di chiese.
Eccoli lì, dunque, gli Undici (del dodicesimo, meglio non parlare), così orgogliosi di lui quando faceva miracoli! Ora invece eccoli lì, “confusi alla folla”, muti che non sanno che dire, che pensare: che fa, se ne va davvero? E di noi che sarà?
Intanto “han chiuso le gole alla voce”, che non li riconoscano dall’accento che sono suoi discepoli. Del resto perché morire tutti? È il suo sangue, mica il nostro, che redimerà il mondo.
E poi noi dobbiamo predicare il Vangelo. I morti non predicano. Né possiamo cominciare qui, proprio ora: “stasera è più forte il terrore”. Domani andrà meglio. Anzi, mentre tu “sanguini in croce”, sarà meglio che noi spariamo. Per poter predicare un domani.


IV

Han volti distesi, già inclini al perdono,
ormai che han veduto il tuo sangue di uomo
fregiarti le membra di rivoli viola,
incapace di nuocere ancora.

Il potere vestito d’umana sembianza,
ormai ti considera morto abbastanza,
e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni
degli umili, degli straccioni;

ma gli occhi dei poveri piangono altrove,
non sono venuti a esibire un dolore
che alla via della croce ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come se stesso.

Ora l’occhio di De André si dedica al gioco dell’introspezione: ha davanti a sé un tipo umano fra i più complessi e difficili da capire e da interpretare: quello dei vincitori.
Ora i sacerdoti e i capi del popolo cominciano a prendere le misure alla nuova realtà: ormai lui è in croce; ancora respira è vero, ma ne avrà più per poco; sì possiamo ben dirlo: “è morto abbastanza”! Su questo fronte non abbiamo più nulla da temere.
Però, mai abbassare la guardia: morto il profeta taumaturgo che faranno i suoi discepoli?
Perché «… il popolo è, ben lo sapete, un cane /e i sassi addenta che non può scagliare» dirà qualcuno fra qualche 1837 anni osservando un intero popolo distruggere una Rocca, l’odioso simbolo dell’odiato tiranno mitrato sull’acropoli della nostra Perugia. Mai fidarsi dei pezzenti.
Ma di quelli che piangono veramente Gesù, si può star tranquilli: chi ama un altro come sé stesso, quando l’oggetto del suo amore gli viene a mancare non va in piazza a fare rivoluzione.


V

Son pallidi al volto, scavati al torace
non hanno la faccia di chi si compiace
dei gesti che ormai ti propone il dolore
eppure hanno un posto d’onore.

Non hanno negli occhi scintille di pena
non sono stupiti a vederti la schiena
piegata dal legno che a stento trascini
eppure ti stanno vicini.

Perdonali se non ti lasciano solo,
se sanno morir sulla croce anche loro;
a piangerli sotto non han che le madri,
in fondo son solo due ladri.

La bellissima canzone, si conclude con altre due icone di dolore: sono le immagini dei due ladroni che muoiono su due croci come la sua, a pochi metri dalla sua.
Ora l’anarchico De André esce dalla neutralità e intercede presso Gesù in loro favore: «Mi fai notare che “non hanno negli occhi scintille di pena”? Da noi si dice: “ognuno sente il suo”. Cinico? Forse, Ma non farci caso».
«Mi dici che non fanno caso alla tua schiena martoriata? Anche la loro s’è piegata sotto il peso della croce».
«Mi fai notare che tu hai avuto in più lo strazio dei flagelli e la corona di spine? È vero, ma anche quello che hanno avuto loro, non era poco».
De André insiste presso Gesù. «Neppure te la prendere, se ti rubano un po’ la scena, “se non ti lasciano solo”, se anche loro si sentono due “poveri cristi in croce”. In fondo tu hai già una piccola folla che piange per la tua morte e da domani avrai tutta la storia dalla tua. Essi, a piangere per loro, non han che le madri».
È una mia suggestione o è proprio la voce sommessa di Gesù che ci fa notare, a tutti, che non è stato lui a dire o a scrivere “in fondo son solo due ladri”, e che per lui ognuno è, proprio come lui, «figlio dell’uomo, fratello anche mio».

, ,