D’altri diluvi una colomba ascolto


Ho amato il Vaticano di amore grande, totale. Avevo 16 anni quando decisi che sarei andato a Roma a completare i miei studi di filosofia e teologia, per essere proprio al centro, nel cuore stesso della Cristianità.
E fui fortunato come solo lo furono quelli che in quei cinque anni “fatali”, irripetibili, unici nella storia della Chiesa, ebbero, come me, la fortuna di vivere a Roma.
Ma ben pochi di quei pochi che di tale fortuna godettero, ebbero la mia fortuna: di poter incontrare più volte il Papa buono – buono per antonomasia – Giovanni XXIII, nei cortili e nella cappella del Seminario Romano, o nel piccolissimo chiostro della villa di Roccantita in Sabina, dove più volte è venuto a trovarci e tante foto mi restano con lui, a ricordo.
E finito il seminario di poter vivere le due ultime sessioni del Concilio proprio lì, dentro, nell’Aula conciliare, in San Pietro, nella basilica, dicendo tutti i giorni la messa nelle grotte vaticane, prima di risalirne per seguirvi i lavori del Concilio. Quei due anni, 1964-1965, segnarono per sempre la mia vita.
Arrivato a Roma oggi, il giorno dopo ero già in san Pietro, per seguire da vicino gli ultimi due novendiali di Pio XII. E poi la fumata bianca che annunciava l’elezione del card. Roncalli (28.10.1958), e poi la sua incoronazione e l’anno dopo ancora l’apertura del Concilio: era quell’11 ottobre 1962. E poi un altro conclave de visu e un’altra fumata bianca per Paolo VI (21.6.1963) e la solennissima chiusura del concilio in Piazza San Pietro (8.12.1965), Paolo VI regnante.
E poi ancora: i quattro anni di ricerche e di lavoro nella Biblioteca Vaticana, una delle più prestigiose e preziose del mondo.
Avevo accesso liberamente in Vaticano (vi andavo perfino a fare rifornimento di benzina per la mia Cinquecento, a fare acquisti per la casa e per la cucina all’Annona e al Governatorato per abiti, materiale fotografico, alcolici ecc. D’accordo, ci sarà stato anche qualcosa d’infantile, in tutto quell’entusiasmo, ma mi sentivo al centro del mondo, nel momento più felice e propizio e ricco di grazia che la Chiesa abbia mai conosciuto nei tempi moderni.
Quell’ansia di rinnovamento, di ringiovanimento che aveva segnato il tempo di Giovanni XXIII e i primi 5-6 anni di Paolo VI (e che mi aveva perdutamente sedotto nei miei anni romani), aveva anche coinciso con l’unica volta, negli ultimi cinque secoli, che la Chiesa aveva saputo precedere e anticipare la società secolare: Berkeley e la Sorbona e il Maggio francese ’68 sarebbero venuti solo tre anni più tardi: dopo il Concilio, dopo le messe beat, dopo i capelloni e le minigonne dei teenagers seduti sugli scalini dell’altare, mentre i preti finalmente cercavano di predicare, in un linguaggio che almeno si sforzava d’essere comprensibile ai più, il messaggio sempre nuovo e profetico e rivoluzionario (in senso proprio e autentico) del Vangelo di Gesù Cristo.
In quei cinque anni (1964-1969) io avevo ripensato e rivisto tutto il mio modo di essere e il mio bagaglio intellettuale; e quando finalmente io pensai che la mia metamorfosi fosse compiuta e che la farfalla aveva finalmente bucato il suo bozzolo ed era pronta per spiccare il volo…: proprio in quegli stessi mesi accadde che Roma (e per quanto riguarda me, anche Perugia) ebbe paura del volo della Bianca Colomba che su di lei si era posata e la pregò di ritornarsene lassù, dove il Bernini l’aveva fissata per sempre, e giù, sulla terra, lasciasse fare a loro, agli uomini della sua Chiesa, che di governo avevano molto più esperienza di una colomba, anche se bianca.
Così, piano piano, senza darlo a vedere, dichiarando fedeltà ai documenti del concilio, i diversi nocchieri succedutisi al timone della nave di Pietro, in ossequio alla saggezza di chi ha più fede nella Chiesa che nelle arditezze profetiche dello Spirito, e obbedendo alla parola d’ordine di tutti i cultori della prudenza “avanti tutta quasi indietro”, senza darlo a vedere, invertirono la rotta e anziché affrontare l’alto mare aperto nel folle volo della profezia, preferirono far vela verso il più tranquillo porto della tradizione romana.
In quel porto siamo rientrati, ritrovandovi tutto ciò cui eravamo da sempre abituati. Tutto: santità e peccato, verità e menzogna, spirito di servizio e bramosia di carriera, povertà e fasti, umiltà profonda e vanità inconfessabili: tutto ciò che in questi giorni ci viene sbattuto in faccia senza misericordia da chi si rallegra nel ritrovarci non migliori di loro; anzi, poiché non migliori, proprio per questo certamente peggiori, perché in più ci viene imputato un difetto, anzi il peccato che il mondo non ci perdonerà mai: quello di considerarci migliori, per principio, per definizione. Non siamo stati noi stessi a definirci “esperti in umanità”?: un titolo che in tanti ci contestano, visto quello che abbiamo saputo fare nella storia lontana e recente, e che sappiamo fare ancora oggi, a nostro scorno e disdoro.
Non contenti di questo, di quanti altri inutilissimi titoli abbiamo amato fregiarci? Dai cardinali a scendere giù giù fino ai monsignori e passando per una selva di altri titoli inutili di cui solo negli ultimi decenni s’è finalmente trovato il coraggio di sopprimerne alcune decine, abbiamo saputo alimentare ambizioni perniciose per la Chiesa. È recentissima la denuncia che il papa attuale ne ha fatto, si può ben dire, Urbi et Orbi.
Debolezze, solo umane miserie? Ora però siamo arrivati alla galera per il “maggiordomo” del pontefice romano e all’esonero del presidente dello Ior (ancora lo Ior!), con un Segretario di Stato che piace solo a questo papa e che ora si dice pronto a dare le dimissioni (troppo tardi, probabilmente), mentre un governatore dello Stato Città del Vaticano che, avendo rimesso in ordine i conti della Santa Sede, per tutta gratitudine e in modo del tutto inspiegabile, viene mandato a svernare nella nunziatura apostolica degli Stati Uniti. Di tutto questo io non so nulla e non capisco nulla: mi vien solo tanta voglia di dire che lo Spirito Santo deve aver smarrito la rotta che la mistica bianca Colomba seguiva per poter seguire e assistere e, perché no? controllare un po’ da vicino i romani pontefici e suoi più diretti collaboratori. Sarà per questo che qualche giorno fa mi è tornata alla mente una lirica di Giuseppe Ungaretti, una di quelle che piacciono tanto agli studenti perché l’imparano in mezzo minuto, e agli uomini di pensiero perché ti tolgono il sonno per una notte intera?
«D’altri diluvi una colomba ascolto».
Tutto qui? Sì, tutto qui. E scusate se è poco.
Perché proprio di diluvi, qui si tratta: in tutti i campi e in tutte le latitudini del mondo. Guerre interminabili, stragi, sommosse, fame, sete, crisi assassine, banche criminali, Borse come camere a gas, partiti in dissoluzione, capannoni appena costruiti spianati da un terremoto neppure proprio micidiale, terra che smotta ad ogni acquazzone un po’ più insistente… e chiese che si svuotano e dio sempre più spesso scritto con la lettera minuscola, e un maître du burlesque che si candida a divenire capo di quello Stato che ha già portato una volta sull’orlo del fallimento. Sono questi i diluvi su cui piange una colomba che non ha più né terra né rami su cui poggiare i piedi e riposare.
Dolce, mite, triste Colomba bianca non darti per vinta! Continua a cercare; fino a portaci un altro ramoscello d’ulivo. È tutta l’umanità che l’aspetta.

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