A me di Dio non importa, o meglio, importa terribilmente


«A me di Dio non importa. O, meglio, importa terribilmente. Io soffro per lui, perché lo vorrei, e non lo conosco. Io credo in Dio, disperatamente. Poveramente. Semplicemente. Perché mi è terribilmente necessario: crederei in lui anche se sapessi che non esiste. Quando piangevo era lui che mi consolava, e mi parlava, mi raddolciva. Le strade erano bagnate d’acqua piovana e casa mia m’attendeva senza parole. Ma io parlavo con lui, e lo sentivo dappertutto: e sui volti della gente, sì, di questa povera, fragile, stupida, egoista umanità contadina, borghese, operaia e via di seguito. Lui era la mia speranza, il mio conforto, la mia angoscia».
Queste parole sono di un giovanissimo poeta spoletino, morto giovanissimo, e dunque rimasto eternamente ‘giovanissimo’. Lui che ha avuto la fortuna di morire “giovanissimo”. Il suo nome era Vincenzo M. Rippo, stroncato a soli 23 anni da una leucemia fulminante. Non lo diceva già Menandro, in un verso che Giacomo Leopardi ha reso famoso (Amore e Morte)? «Muor giovane colui che al cielo è caro». Di fronte alla morte di un giovane, gli anziani pensosi dei destini umani sanno che nell’apparente ingiustizia di una morte prematura, ci può anche essere la fortuna di vedersi risparmiate tutte le amarezze, a volte atroci, della vita. Lo disse mirabilmente Giovanni Pascoli in una delle sue più celebri liriche, L’aquilone, nella quale l’ormai grande e famoso poeta, che in gioventù aveva conosciuto anche la tentazione del suicidio e la prigionia e la fame («mangiavo solo nel sogno / svegliandomi al primo boccone» (La voce), ricorda lo strazio sulla morte del compagno di giochi che muore giocando con l’aquilone: «felice te che al vento non vedesti cader che l’aquilone». E in quel ricordo c’è quasi un sentimento di inanità e d’invidia. Perché la morte di un giovane è assai più una perdita per chi resta che per chi parte. Mi vengono in mente le parole con cui si chiudeva la versione italiana di un film russo degli anni Cinquanta, La ballata del soldato: parlando della morte in guerra di un giovane soldato: «È triste pensare a tutto quello che poteva fare e non ha fatto, a quello che poteva fare e non ha fatto, all’amore che poteva dare e non ha dato» (la citazione è a memoria, da una visione di 47-48 anni fa).
Così continua la citazione interrotta: «… E lui era dappertutto, e io piangevo, e fuggivo, e morivo dappertutto. Ora sono solo, e non l’ho trovato. Non l’ho trovato nella Bibbia, nel Vangelo o nel Corano: perché niente lo definisce, e lui è come lo voglio io. Misterioso e bonario. Grande, indulgente, sconosciuto. Pazzo, vendicatore, inutile, terribile, egoista, innamorato. Disperato. Solo. Ha il colore del cielo, il rosso dello stupore. E tanti altri nomi. Dov’è, chi è, com’è non lo so. Ora tu mi chiederai come faccio a scrivere tante sciocchezze. Scrivo e parlo da disperato» (Spoleto, 22/10/1969).
Non è un testo meraviglioso?
Ma è pieno di sciocchezze? Certo, lo dice lui stesso.
Blasfemo? Certo, come solo sa bestemmiare chi ama e crede disperatamente, come lui dice di essere. Come solo sapeva bestemmiare Giobbe, che ne ebbe poi una grande ricompensa dal Dio che lui aveva bestemmiato. Perché Dio è proprio come dice lui, Pirro:
Pazzo! Sì pazzo: d’amore.
Vendicatore? Anche: perché sa vendicarsi ricoprendo di benedizioni chi lo bestemmia.
Inutile? Del tutto: perché Dio non serve a niente, a salvarci né dai terremoti né dalla lava dei vulcani né dalle onde assassine dello tzunami; e se a qualcosa serve, serve solo a dare pace alla nostra ansia di vita; ma chi si accontenta più della pace del cuore?
Terribile? Assolutamente, contro tutti coloro che vogliono e operano il male dei suoi figli: per ogni rivoluzione d’ottobre ci sarà un 9 novembre 1989, prima o poi).
Egoista? Sicuro, come tutti gli amanti lo sono.
Disperato? Atrocemente: e come potrebbe essere altrimenti, vedendo tutto il sangue e la fame e la violenza che patiscono sulla terra i suoi figli?
Solo? E chi più solo di lui, a cui tutti ormai volgono le spalle?
Quanto ai colori: l’azzurro del cielo, il rosso dello stupore io aggiungerei anche tutti colori dell’iride, di quell’arcobaleno che suggella l’alleanza eterna tra l’Uomo e il suo Dio.
Come credere a qualcuno o in qualcuno che non si conosce, di cui non si sa né chi è, né dov’è, né com’è? Appunto: questo significa credere.
È probabile, mi rendo conto, che più d’un teologo troverebbe qualcosa da ridire su questo simbolo della fede tanto laico quanto profondamente cattolico. Una riprova? Si leggano queste righe strazianti:
«Prendimi Signore, e perdona i miei peccati;
prendimi Signore, perché io non ho soldi;
abbi pietà del mio dolore, pietà della mia angoscia.
Pietà delle mie carni magre, e dei miei piedi freddi,
pietà dei miei denti caduchi,
pietà della mia solitudine,
pietà dei miei capelli, pietà del mio egoismo

Il poeta si vede allo specchio e vede il rapido declino del suo giovane corpo, e ne chiede perdono quasi fosse una colpa: Quasi fosse un dovere essere giovani e belli. Una delle tante atrocità del nostro tempo e della nostra incivile civiltà del denaro, della gioventù, della bellezza, della forza atletica, dell’efficienza, del successo, è proprio l’infelicità cui sono condannati tutti quelli che tutto questo non hanno.
Ormai al giovane poeta non resta che Lui, il Dio disperato e solo come disperato e solo è lui stesso, il poeta condannato a morte.
«Ogni sera t’invocavo nella preghiera,
Dio Unico di bontà e sapienza,
e con parole che non comprendevo
ripetevo nei gesti gli antichi.
(…) Guarda al di sotto delle mie labbra e delle mie lacrime,
e coglimi come vorrei
».
Bello! E profondo. E vero. E soprattutto cristiano. E profetico.
Forse un’anticipazione d’un cristianesimo che un giorno potrà anche fare a meno dell’aggettivo cattolico. “Sono cristiano” basterà.
Mi rimangono nella mente le parole del poeta che già sente la morte arrivare:
«Morivo con la gioia stanca
Dell’innocente
».