Quelle campane a morto che suonano per Dio


WANTED. Ricercato. Vivo o morto. Meglio comunque vivo, che ci sia lasciata la soddisfazione d’essere noi a farlo fuori.
Di chi stiamo parlando? Di LUI naturalmente. Di Dio. Di chi se no?
Se ne parla già da tanto tempo. Qualcuno ne aveva dato anche il solenne annuncio, scendendo dalle montagne dell’Engadina, da quella Sils Maria sull’omonimo laghetto, dove fra 1881 e il 1888 amava cercare, nei mesi estivi, salute per il suo corpo, sollievo per i suoi dolori, idee e vigore per il suo pensiero.
Parlo di Friedrich Nietzsche, naturalmente e del suo La gaia scienza, opera con la quale il grande visionario lanciò al mondo il suo grido di vittoria, subito ritirato, rimangiato e ridimensionato in una specie di profezia per un tempo a venire, per il quale, come è per tutte le profezie che si rispettino, non sa indicare un “quando” preciso, ma solo che sarà, che senza dubbio sarà!

L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”.
A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”
(F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125).

Oggi il quotidiano la Repubblica offre ai suoi lettori una doppia pagina sullo “stato di salute” della fede in Dio ai nostri giorni. Un servizio di Elena Dusi che ci informa sullo stato delle cose oggi secondo un ampio studio della Chicago University, e un articolo di Vito Mancuso, il quale tira alcune sue personali considerazioni sulle quali può tornare utile riflettere. Attraverso un monitoraggio dello stato della fede nel mondo giunto alla sua terza rilevazione (le altre due sono del 1991 e 1998) il rapporto “Religion” dell’International Social Survey Programme sulla «Fede in Dio nel mondo attraverso gli anni e le nazioni» prende atto di un lento ma costante calo della religiosità nel mondo contemporaneo. Per limitarci all’Italia, dal 1991 al 2008, gli atei sarebbero cresciuti del 3,5%, mentre i credenti sarebbero in calo per un buon 10,55%. Francamente allarmante.
Ancora: secondo la stessa ricerca lo zoccolo duro della religiosità sarebbe dato dagli over 68 (66,7%), mentre sotto i 28 anni, i credenti in Dio si attesterebbero sul 35,9 %. Devo confessare che questi ultimi due dati mi confortano: a vent’anni non credere in Dio può essere quasi fisiologico. È quando la vita ti ha mostrato tutti i suoi veri volti, il più bello e il più brutto insieme, che la fede in Dio si rivela per quello che è: conforto e salvezza oltre ogni dolore e la stessa morte.
Duro il commento di Vito Mancuso, un teologo che in pochi anni ha saputo procurarsi un credito importante come portavoce di una cattolicità che vuole rinnovarsi, fedele alla grande tradizione del migliore cattolicesimo, ma insieme critica sulle scelte e sulla linea della cattolicità dei nostri tempi, che «invece di guardare in faccia la situazione e correre ai ripari abolendo la legge ecclesiastica e non biblica sul celibato sacerdotale, aprendo al diaconato e al cardinalato femminile, rivedendo le leggi anacronistiche in tema di morale sessuale e di disciplina dei sacramenti, non ha saputo fare altro che istituire un altro centro di potere, un altro ministero clericale, il Pontificio Consiglio per la nuova Evangelizzazione, i cui frutti inesistenti sono e continueranno a essere sotto gli occhi di tutti».
Una sola obiezione, ottimo Mancuso! Ti mancano tanto le donne cardinali? O è solo per una questione di pari opportunità? E non sarebbe molto meglio abolirlo del tutto il cardinalato, specialmente ora che lo stesso Benedetto XVI ha denunciato pubblicamente e ufficialmente la sua grande amarezza per una curia e una chiesa dove ambizione, desiderio di potere e desiderio di visibilità stanno guadagnando terreno in maniera preoccupante? Ed era un giovedì santo, l’ultimo, quando il papa ha aperto a tutta la Chiesa il suo cuore!
E vorrebbe vedere, Mancuso, anche delle donne in quello spettacolo abbastanza deprimente di qualche 180-200 cardinali disposti a rettangolo, tutti con le spalle alle pareti, in una sala vasta come un campo di tennis e in mezzo il vuoto, mentre il papa lassù – piccolo e solo e lontano! – parla a tutti senza vedere nessuno, senza guardare in faccia nessuno, in uno scenario da corte medievale?
Perché è proprio del problema che Mancuso introduce che vorrei parlare oggi, quando parla d’«un altro centro di potere, un altro ministero clericale, il Pontificio Consiglio per la nuova Evangelizzazione, i cui frutti inesistenti sono e continueranno a essere sotto gli occhi di tutti».
Perché il vero dramma dell’evangelizzazione, oggi, è tutta qui: in una Chiesa che fatica a capire che oggi non si tratta più di dogmi da spiegare e da far capire a chi non li ha ancora capiti e che (sempre secondo Roma) proprio a causa di questa ignoranza rischia di perdere la sua fede. A me sembra che il popolo di Dio, formato terzo millennio, tutto senta meno che la mancanza dei dogmi, ma molto più quella ben più grave e importante della forza della testimonianza dei santi e dei profeti. E quando si parla di santi non è dei santi Bernardino da Siena che mandava le streghe sul rogo, né dei santi che si guadagnarono fama di santità mandando al rogo gli eretici a cui avevano estorto confessioni con la tortura. Eretici che poi su alcune cose avevano solo il torto di aver visto più giusto e più lontano di noi, se è vero che su tanti punti essi erano arrivati già all’inizio del XVI secolo, mentre noi abbiamo dovuto aspettare la fine del XX secolo per raggiungere gli stessi traguardi.
Qui parliamo invece di altri santi e di altri profeti: degli Antonio Rosmini, ieri all’Indice dei libri proibiti e oggi Beato di Santa Romana Chiesa; degli Charles de Foucault e degli Abbé Pierre, dei don Carlo Gnocchi e delle Madri Teresa di Calcutta, dei don Zeno Saltini e sai di quanti ancora potrei fare il nome, solo che ne avessi lo spazio e ce ne fosse bisogno; perché poi ognuno dei miei lettori saprà aggiungerne altri da solo da don Oreste Bensi, a don Giuseppe Puglisi, da Massimiliano Kolbe a Jerzy Popiełuszko, e a mille altri…
Tutte queste figure il mondo intero ce le ammira e ce le riconosce, ed è a loro che possiamo affidare la nostra speranza di non dover mai assistere ai funerali di Dio. Perché finché ci saranno figure come loro, Dio non può morire.
Del resto lo stesso «uomo folle» che aveva annunciato la morte di Dio dovette rimangiarsi il suo annuncio: “Vengo troppo presto! Non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo.
Questo tempo non verrà mai, se noi, i cristiani, sapremo vegliare sul capezzale di Dio.

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