Senza Dio e senza Stato breve è la felicità


Venticinque anni fa in questo stesso giorno del 9 novembre, avevo giusto finito di festeggiare il mio mezzo secolo di vita. I miei ragazzi (per me chi era ragazzo nel 1969, quando sono arrivato parroco a Casalina, è ancora tale anche se ormai s’avvicina alla sessantina), se n’erano andati e io m’ero ritirato in camera con l’idea d’andare subito a letto.
Più per abitudine che per intenzione, avevo acceso la televisione per sentire le ultime notizie e vidi… Dio che cosa vidi! Una barriera umana in piedi sopra il Muro!
Quale muro? Ma, quello, è chiaro, perché nel 1969 di Muri al mondo c’era solo quello oltre alla grande Muraglia cinese, che però non ha mai ammesso confronti. È del Muro di Berlino che parlo naturalmente, e di quale se no, madama Dorè?
Erano tutti lassù, in piedi, su quel muro che come avevano fatto ad arrivarci e poi a salirci sopra e ora a restarci in piedi, gesticolando, gridando, cantando, agitando le mani e le braccia senza neppure cadere, e la gente là sotto che tendeva a loro le mani e le braccia, in una festa, in una gioia incontenibile che per forza andava gridata, urlata tanto era grande e potente.
Il mio primo sentimento fu di meraviglia incredula, che subito si trasformò in rabbia: come era stato possibile, come aveva potuto essere che questo fatto – che tutto il mondo civile si augurava che accadesse, e io con esso – fosse accaduto senza di me? E perché non era avvenuto tre mesi prima, in agosto, quando io ero a Berlino e mi auguravo che quella vergogna cadesse, e adesso era accaduto, ma senza di me? La mia rabbia fu tanta, almeno pari alla mia gioia, che proprio per l’una e per l’altra, in quello stesso momento mi ripromisi che il prossimo 9 novembre, quello del 1990, io l’avrei vissuto, goduto a Berlino sotto l’arco di Brandeburgo, a festeggiare con i tedeschi e con tutti i pellegrini della libertà di tutto il mondo il primo anniversario della sua caduta.
E così fu davvero! L’anno dopo, la notte del 9 novembre io ero Berlino, alloggiato al 20° piano d’un hotel in Alexanderplatz; ma dopo cena fino a tardi ero rimasto sotto il fatale arco di Brandeburgo, con russi che vendevano vodka e caviale a gente che ne comprava e li distribuiva ai presenti per il brindisi alla libertà ritrovata, anzi no, meglio, riconquistata. Non c’era una gran folla, ma abbastanza per creare un clima e io comprai per ricordo, un colbacco nero e un berretto dei vopos con la stella rossa davanti. Il primo l’ho regalato, il secondo è ancora in un mio armadio, dove rimarrà fino alla mia morte. Poi quel que ne sera, sera.
Un altro ricordo mi è rimasto stampato nella mente: il freddo di quei giorni. Non sapevo come sfuggirgli, ero vestito come poche volte in vita mia, ma avevo sempre freddo. E quando attraversavo la celeberrima piazza dove ero alloggiato, confrontavo il mio quintale di panni che avevo indosso, con le camicette delle giovanissime cantanti (soprattutto le donne mi stupivano) del celebre complesso familiare irlandese The Kelly Family, che dalla mattina alle otto alle otto di sera cantavano a tuttavoce, dalla piccolina che non aveva più di cinque anni, vestite solo di quelle camicette… senza morire di freddo! Già, però loro venivano dall’Irlanda, mi consolavo, e io da Casalina, nel cuore dell’Umbria (una bella differenza climatica!), essa stessa cuore verde d’Italia e dunque, per la proprietà transitiva, se Casalina è cuore dell’Umbria… traetene voi le conseguenze! Quella bimbetta di cinque anni la rividi otto anni dopo in TV da Sarajevo che cantava per Giovanni Paolo II, ed era ormai una bella ragazzetta. E ne fui felice.
Ma fu il giorno dopo che, andando in giro per Berlino, vidi un gruppo di giovanotti che davan sotto di mazza e di piccone a demolire i blocchi di calcestruzzo che formavano l’odiatissimo Muro, duro dannato, e anch’io volli far la mia parte: mi feci prestare un piccone o una mazza (non ricordo) e mi misi a tirar botte che io credo che al muro non facessero neanche il solletico, tanto era duro il muro e tanto “gentili” (fiacche) le mie braccia abituate a usar la penna o ad agitar le dita su una tastiera, finché non vidi in terra un bel pezzetto di muro, e lo raccolsi e lo portai religiosamente con me in Italia e poi con un vecchio ferro e con un vecchissimo chiodo ne ho ricavato una Cristo crocifisso che ho sempre davanti a me quando siedo alla scrivania nel mio studio, come in questo momento. È il mio “Cristo di Berlino” di cui vado molto fiero.
Ma perché racconto tutto questo? Perché come si fa a scordare quei momenti di euforia e di entusiasmo, che fece pensare a un giapponese che con la caduta del Muro fosse finita la storia? Finite le guerre, sanati i contrasti insanabili, con l’impero sovietico che s’andava sgretolando come e più dello stesso Muro di Berlino, tutto sarebbe stato possibile: avremmo finalmente avuto un mondo in pace, unito in un embrasson nous universale.
Ma, ahimè – e il grande Indro Montanelli ce l’aveva già detto – attenti, i sogni finiscono all’alba come a Poznan e a Budapest nel 1956, e nel ’63 a Dallas e nel ’68 a Memphis, e nel ’68 a Praga, quando i carrarmati sovietici schiacciarono sogni e sognatori sotto i loro cingoli e i loro colpi di cannone o di mitraglia, fino alla tragica replica di Piazza Tienanmen e alle primavere arabe dei nostri giorni.
Così mi ha colpito il bel titolo di laRepubblica di ieri venerdì 7 per uno scritto di Tzvetan Todorov: Senza più Dio e senza Stato, la felicità breve dell’illuminismo. Neanche a dirlo, la cosa che mi ha colpito di più è quel “la felicità breve”. Anche il testo proposto è breve, e breve è anche il tempo preso in considerazione, quello fra la morte di Luigi XIV, il Re Sole (1715) e quella ben altrimenti tragica di Luigi XV (1789.
Fu quella la breve epoca in cui l’uomo poté illudersi d’aver trovato la pietra filosofale per trasformare in oro ogni metallo vile, in sapienza ogni sciocchezza, in nobiltà ogni volgarità, in diritto ogni torto. Si poté pensare che sarebbe bastato illuminare le tenebre dell’errore, della superstizione e della religione per assicurare all’uomo nuovo un avvenire radioso. Ma mentre Jacques Rousseau disquisiva sull’uomo naturalmente buono, gli uomini di carne ossa e sangue preparavano la tragedia delle miniere malsicure e malissimo pagate, lo sfruttamento intensivo di quello che di lì a poco il socialismo nascente avrebbe chiamato proletariato, cioè la classe che non aveva altro da offrire alla società che i propri muscoli, le proprie mani e quelle della propria prole (fattori/fattrici di figli, dunque); né s’erano ancora conosciuti gli orrori delle due guerre mondiali; e sulle vergogne del colonialismo e della tratta degli schiavi non s’era ancora riflettuto abbastanza. E non c’era ancora stata la Shoah e i campi di concentramento nazisti e quelli della Siberia, così che era possibile illudersi ancora.
Ora non più. Hiroshima prima e Nagasaki poi, il Vietnam e la Cambogia, la Cina e i regimi sudamericani, le decapitazioni dell’IS, e la tragica sorte dei vecchi e nuovi boat-people non ci permettono più di sognare.
Ma non doveva essere l’umanità dei lumi il vero antesignano del luminoso sol dell’avvenire? L’Uomo senza Dio e senza Stato, l’Uomo libero di mangiare ogni frutto proibito del paradiso terrestre, che non sia dunque ancora nato? O che il Superuomo di Nietzsche non sia ancora sceso dal suo ritiro di Sils Maria in Engadina? O non sarà che 7 miliardi di uomini siano duri da gestire senza Dio e senza Stato? Io, sinceramente, me lo chiederei.