Due cari e autorevoli Lettori mi hanno chiesto di spiegare meglio la mia posizione e il mio pensiero sulla mancata benedizione della finalmente agibile superstrada della Val di Chienti. Questione delicata o ridicola secondo i punti di vista: comunque spinosa per chi deve parlarne da una posizione come la mia. Ma non essendo mia abitudine sottrarmi alle richieste dei Lettori, cercherò anche stavolta di fare del mio meglio.
La domanda mi viene posta da Nicola Molè, ben noto per la sua storia personale di uomo impegnato nella politica, nel sociale e nella vita associativa cattolica di Terni e non solo, e da Luigi Macchiarulo, uomo di appassionato amore per la Parola di Dio e meticoloso lettore critico dei documenti della Chiesa.
Tutti e due hanno letto e apprezzato il mio articolo di domenica scorsa, ma mi chiedono di rispondere a qualche domanda che stanno loro a cuore. Cosa che faccio volentieri, sia per l’amicizia che ci lega, sia per l’occasione che mi offre di chiarire meglio, a me stesso e agli altri, l’essenza del problema. Ecco, successivamente le loro parole:
Molè:«Ho letto il tuo articolo ed ecco la mia riflessione. È una cosa molto grave quel che è accaduto? Almeno così sembra dal tuo scritto”. E prosegue: “Perché grave? A me è parsa una dimenticanza; se però tu sai che è stata voluta perché così qualcuno ha deciso, dimmelo. E chiariscimi: qual è il significato di una benedizione in queste manifestazioni? Quale il valore evangelico e pastorale?”
Così Macchiarulo: «Non potrebbe l’episodio della mancata benedizione, rappresentare anche il segnale che la chiesa deve cambiare profondamente; forse non è più il caso di proporre cerimonie che non trovano eco nel cuore umano. Non saprei però cosa suggerire in cambio».
Comincerò dalla prima: “Se tu sai che (la cancellazione) è stata voluta perché così qualcuno ha deciso, dimmelo”.
Caro Nicola, tu sai bene quanto io sia un “passero solitario” sia nella Chiesa sia nella vita civile e sociale della nostra Regione. Una vocazione – questa della mia volontaria solitudine – piuttosto tardiva (non fu così nei primi 3-4 decenni del mio ministero), ma a cui sono rimasto poi sempre fedele. Non sono mai entrato in nessuna “stanza dei bottoni”, e neppure dei “bottoncini”. Non ho dunque amicizie altolocate. Ho però sempre prestato ascolto a quel lógos spermatikós del quale mi son sempre fidato. In più, questa volta, ho trovato un aiuto nel grande Alessandro Manzoni che mi ha insegnato un trucco per poter capire le cose con un po’ d’anticipo sui tempi normali. Una ricetta semplice la sua: prestare attenzione a tutto ciò che ci può offrire un aiuto a scoprire ciò che si vuol sapere. È come quando, davanti a una vecchia botte piena di vino nuovo, ma ancora sigillata, uno si chiede quale sarà la “qualità di quel vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle…e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è» (I promessi sposi, cap. 11).
Tornando al caso nostro, io sono convinto che quell’idea ha una precisa paternità e un regista occulto: Qualcuno cioè che deve aver pensato che era venuto il momento di tentare il colpo grosso: cancellare il rito, ormai stanco e frusto, della benedizione della nuova strada, riducibile più che altro a una parata delle vanità. E sai quanti piccioni con una sola fava!
- Si è fatto felice chi è contrario per principio alle manifestazioni religiose in luoghi pubblici;
- Il fatto sarà ricordato come una vera prima volta: una data spartiacque, su cui si stabilirà un prima e un dopo. E sai quanti seguiranno! Sarà un esempio da imitare e in più si sarà creato “il precedente che fa tradizione”: d’ora in poi tutti si sentiranno in diritto di imitarci. I rischi? Nessuno: al massimo ci diranno di no. E chi se ne impipa?
Quanto al primo ministro non sapremo mai se c’era stato o no il suo consenso. Non lo dirà neppure sotto tortura. Ma l’ha smentito! Non vale! Le smentite di comodo fan parte del personaggio.
Quanto al Vescovo, è troppo un sant’uomo per risuscitare un tribunale dell’Inquisizione per tanto poco. Niente da temere, dunque, neppure su questo fronte.
Tutti avranno capito ormai, che io escludo del tutto una disattenzione o una dimenticanza: i cerimonieri non dimenticano mai nulla. Vivono di-e-per queste cose: mai si perdonerebbero un passo falso in queste cose. Ce l’hanno spiegato alla perfezione i tre Saggi della Turandot (quelli che vivono “sul bel laghetto blu, tutto cinto di bambù”): essi non sbagliano mai, dato che vivono consumando il loro prezioso cervello “sui libri sacri” del cerimoniale, sempre esattissimi e puntualissimi in tutto. Ora quel “qualcuno” vivrà vantandosi con superiori e colleghi d’essere stato lui l’artefice d’un momento che sarà ricordato come un significativo passo avanti verso una società laica e post- o anti- cristiana. Un altro “alea iacta est” da cui non si tornerà più indietro. Che vuoi di più?
Seconda domanda: ha ancora senso, oggi, benedire strade e ponti, macchine e fabbriche, scuole e ospedali? Ho riportato sopra le domande sia dell’uno sia dell’altro, Qui il discorso si alzerà decisamente di tono e di livello. Che vuol dire oggi benedire una strada, un treno un aeroporto? Cosa dà, se qualcosa dà, la benedizione d’un prete o d’un vescovo? Vale davvero la pena di sfidare l’insignificante e perfino il ridicolo con una benedizione?
Per rispondere devo rifarmi, anche se brevissimamente, al senso biblico del termine: Benedizione, ebraico berakah, che come il greco eu-logia, e il latino bene-dicere, contengono tutte il concetto di lode, di ringraziamento e al tempo stesso un’ invocazione di aiuto e protezione. Due movimenti dunque, per una sola parola: uno ascendente (dall’uomo a Dio), l’altro discendente (da Dio all’uomo). Può un significato biblico collimare con la storia del popolo biblico? Niente di più facile. L’ebreo ha fatto per millenni l’esperienza del nomadismo; per millenni s’è identificato con la figura dell’ebreo errante, per secoli e secoli ha fatto l’esperienza del deportato che sogna i salici della sua patria natia, e Gesù stesso dice di non aver una pietra dove posare il capo. Non sono tutti segni di questa misteriosa realtà d’un popolo in continua ricerca d’una patria che sia la propria per sempre?
Cos’è allora benedire una cosa, e nel caso nostro una grande strada,
se non un ringraziarlo per averci concesso di poterne godere, di potercene servire, un confermare il nostro impegno di servircene sempre per il bene, come è bene il goderne, il servirsene e il favorire che tutti ne godano e se ne possano servire?
Allora si affaccerà l’ultimo punto che prenderò in considerazione in questa sede: se quella strada è per me e per tutti, io dovrò sentirmene non soltanto l’utente ma anche il responsabile, e dovrò sentire il dovere di mantenerla in buone condizioni, perché ognuno se la senta propria, e come tale la tratti e la mantenga. E la mia guida dovrà essere una gioia per me e per tutti e non un pericolo per chi ci si avventura entrandoci. Un buon rito di benedizione può giovare a che questo accada? Io credo di sì, ma il rituale va ripensato da capo a fondo.