Voleva essere quasi un pellegrinaggio alla ricerca del tempo perduto. Mi ci ero preparato da un po’ di giorni, con l’idea di gustarmelo appieno. Alla mia età non sai mai, anche se le tue condizioni fisiche sembrano (e forse lo sono realmente) ancora buone, se ci sarà una prossima volta. Lo speri, ma sicuro non puoi esserlo mai. Avevo dedicato dieci giorni di ferie in agosto in Germania nella Foresta nera, mia amatissima seconda Heimat (magnifico termine tedesco, quasi intraducibile, che mette insieme l’idea di terra, casa, cielo, famiglia, amore, lavoro, culla e tomba). O Schwarzwald, o Heimat, wiebistdu so schön? “O Foresta nera, o terra mia, come puoi essere tu così bella?”. Vi avevo ritrovato tutto: i miei monti, i miei boschi, i miei laghi, i miei sentieri, i miei torrenti, le mie cascatelle, e quelle case coi loro incredibili tetti a spiovere fin quasi a terra in un tripudio di fiori che di ognuna di esse sa farsi quasi un giardino pensile a più piani, dove il rosso la fa sempre da padrone e signore incontrastato.
Vi avevo ritrovate anche tutte le mie speranze, che ahimè, son tutte rimaste lassù, che non hanno mai voluto in tutti questi anni seguirmi in Italia, lasciare quegli abeti, quei prati, quelle acque e quei monti per raggiungermi qui, malgrado io l’avessi tante volte invocate.
Ma almeno quelle, lassù, le ho ritrovate tutte: speranze e memorie, tutto bello e fresco come allora. Forse solo un po’ deluse anche loro… Né potrei dar loro torto.
Ma almeno loro c’erano tutte a salutarmi, a farmi festa, a infondermi coraggio, a esortarmi a non darmi per vinto: la traversata non è ancora finita, sussurravano; la notte non è ancora passata, qualche pesce potrai ancora prenderlo. Così mi bisbigliavano quel vento fra gli abeti e quelle onde sui laghi. “Sempre che tu non ceda al sonno, o alla stanchezza, o alla noia, o alla delusione” aggiungevano. Difatti ne sono ritornato ben carico di propositi.
Tutto il contrario giovedì scorso a Roma. Volevo anche lì fare qualche passo nei sogni, ma di quei sogni non ho potuto incontrarne neppure uno, né a Roma né in Sabina.
Che genere di sogni? Se avrete pazienza ve li racconterò. Comincerò con Roma. La città dei miei studi e del Concilio. La zona è quella di Montesacro, non lontano dalla Nomentana. Erano gli anni Sessanta, in una strada che da Montesacroportava fin quasi a Settebagni.
Parlo di Via delle Vigne nuove: una strada che più verde di così non si poteva. Lunga 3-4 chilometri che l’unica casa che incontravi allora era quella dove abitavo io, una casa di suore. A mezzo chilometro, più o meno, in linea d’aria, il Tufello. Periferia certo non fra le più rinomate, che Pier Paolo Pasolini frequentava e citava nel suo primo romanzo, Ragazzi di vita (se la memoria non m’inganna). Sulla via, ripeto l’unica casa, usciti da Montesacro, era quella delle suore presso le quali abitavo io. Le buone suore ospitavano anche anziane signore, quasi tutte della buona o media borghesia, per lo più messe lì dai figli che non avevano pazienza abbastanza per tenersele in casa con sé, ma abbastanza soldi da metterle lì in parcheggio. Una di loro possedeva 4 appartamenti e un solo figlio, preside. Era stata messa lì perché la donna di servizio aveva detto al preside: “o io o la mamma”. Il figlio aveva scelto la domestica.
A quelle signore dedicavo spesso un po’ di tempo. Lì ho anche conosciuto la Sig.na Petrarca. Un’ottantina d’anni, quasi cieca ma di spirito assolutamente superiore. Un giorno m’invitò a entrare nella sua camera e mi portò alla finestra. Mi mostrò sotto di noi la cappella. Mi disse: “Vede don Antonio? Lì sotto c’è il Signore. Tutte le mattine appena alzata e tutte le sere prima d’andare a letto, vengo qui e gli dico di Lei. E gli chiedo sempre questo: “Trattalo con delicatezza!”. Non l’ho mai dimenticato. E posso dire che di delicatezza il buon Dio, nei miei confronti ne ha avuto tanta.TANTA!
In quella casa venivano anche a giocare dei ragazzini, vero terrore delle buone suore. Le quali, per attirarli e toglierli così della strada, s’erano procurate un calciobalilla. In cambio s’accontentavano che venissero alla messa la domenica. Per poterli tenere sotto controllo, nelle panche erano schierati così: una suora e un ragazzo, una suora e un ragazzo… Ma neanche così funzionava. Una volta un ragazzo, durante la messa, sputò in faccia a una suora che lo richiamava al silenzio.
Dedicai loro un po’ di tempo ogni giorno. Dopo un mese dissi alle suore di lasciare soli i ragazzi sulle loro panche. Avevo anche insegnato loro a servire la messa. Le suore credevano che fossi fuori di testa. Facemmo la prova. La conclusione fu che la mia retta mensile, già molto di favore, mi fu ridotta dei due terzi.
Bene: Giovedì ho cercato quei pratie quella casa. Non c’erano più né i prati né la casa. “Dov’era l’erba, ora c’è una città / E quella casa in mezzo al verde ormai, / dove sarà?”. Quella era stata la mia Via Gluck che, come quella di Celentano, non c’era più. Neanch’essa. Al suo posto una città che m’è sembrata mostruosa.
Con l’anima triste mi sono allora diretto in Sabina, verso Poggio Mirteto. Per Roccantica. Un paesino arroccato su un monte. Miserabile mi pareva allora, ai tempi dei miei studi al Seminario Romano. Delizioso oggi, mi parve, quando vi ritornai la prima volta, dopo più di trent’anni che le avevo detto addio. Vi passavamo quasi due mesi all’anno, in estate.
Allora l’odiavo. Non vedevo l’ora di ritornare a Roma. Per quei due mesi, per me era “noia cosmica”, (era il tempo in cui in Europa e nel mondo imperversava La noia di J. P. Sartre).
Da quando vi ero tornato, sulla sessantina, cercavo di ritornare ogni anno. Il seminario oggi non ci passa più le sue vacanze. Ci trovavo invece una piccola comunità di incontro e di spiritualità. Io mi fermavo per circa un’oretta, per rivedere quei luoghi tanto odiati allora e oggi d’un fascino dolcissimo, struggente. Vi ritrovavo il chiostro, la cappella, i cortili, e mi fermavo a pregare davanti alla piccola edicola della Madonna.
Era bello “ristare” (G. Carducci) sotto quei tigli e quei platanidove un giorno si giocava a bocce, a pallone, a tennis e alla sera si dava sempre l’ultimo saluto alla Madonna.
Ma giovedì quel pesante e bel cancello di metallo era chiuso. Crudelmente chiuso. Senza riguardo né rispetto per il mio dispiacere. Forse direi meglio se dicessi dolore. Nessun cartello, nessun foglio che ne dicesse la ragione. Tutto era chiuso. La porte, le persiane, tutto. Forse la comunità se ne è andata. Forse il luogo non ha più né sacerdoti né vestali, e chissà se mai più ne riavrà. Forse è candidato a fare la fine di tanti conventi, chiese, monasteri in questo secolo imbarbarito.
M’è parso che si spegnesse un altro spicchio di sole sulla mia vita. Mi sono scoperto fragile. Non ho pianto, ma il cuore era ferito.
Ho ripreso mestamente la via di casa. Non mi sono neanche fermato a mangiare in uno dei simpatici ristorantini del paesino, lassù, in alto, dove ogni anno, il 15 agosto, viene commemorata una grande battaglia che vi è stata combattuta in passato e che ora ogni anno viene riproposta dalla locale Pro Loco.
Quella strada che ho ripercorsa giovedì pomeriggio in direzione Nord, l’avevo percorsa, in macchina la prima volta, in direzione Sud, il 6 luglio del 1959: il cuore era lo stesso: allora a pezzi – il mio e quello di mia madre e di mio fratello – che, come me, si chiedevano che sorta di esilio dal mondo civile era mai quello; a pezzi oggi perché mi chiedevo se mai potrò tornare a varcare quel cancello e tornare a vedere, a sostare e a pregare in quei luoghi allora tanto odiati e oggi tanto amati. A dare ancora un mio saluto alla Madonnina. E mi sono sentito in balìa d’un vento ostile come Rossella O’ Hara davanti alla sua Tara; solo che io non ho neppure potuto dire con lei, “Domani è un altro giorno”.
Che giorno sarà domani, io, giovedì, non lo sapevo e ancora oggi non lo so. So solo che il cuore è ancora capace di soffrire, esattamente come 56 anni fa. Anche se per ragioni esattamente opposte.
Chi me l’avesse mai detto, allora!