Lettera aperta al mio cardinale arcivescovo

Eminenza reverendissima,
Non più di una decina di giorni fa Lei mi salutò, a tavola (eravamo al Santuario della Madonna del Bagno), dicendomi, alla lettera, queste parole: «Don Antonio, grazie per essere un mio prete». Non le ho dimenticate.
Io non so se questo suo modo, davvero bello, di esprimersi sia una sua maniera abituale di esprimersi, o se invece è un modo che usa solo di rado (non posso certo pensare che lo abbia usato solo con me). In ogni caso avendolo usato per me, mi ha dato un attimo di gioia. Anzi, non un attimo solo, perché quella gioia continua ancora. E proprio nello spirito di quella gioia, io Le scrivo questa mia lettera di congratulazione e di augurio.
Se Le è capitato talvolta di leggere qualcuno dei miei articoli su papa Francesco, Lei si sarà fatto un’idea di quanto questo papa ha saputo dare una risposta a tante mie domande sul ruolo della gerarchia nella Chiesa; a quante mie speranze ha saputo dare compimento e con quanta vera devozione io ne segua quasi quotidianamente le straordinarie invenzioni.
Una cosa mi affascina in Lui soprattutto: il meraviglioso coraggio. «Di quel securo il fulmine, tenea dietro al baleno» (A. Manzoni, Il Cinque Maggio). Francesco prima fa, poi dice; prima ti sbalordisce, poi ti spiega; prima ti fa vedere il miracolo, poi ti dice come si fanno i miracoli. Come i prestigiatori; solo che Lui non vende trucchi, ma dona solo verità; le sue azioni sono esse stesse le risposte che ci illuminano sulle vie da percorrere, sui metodi da seguire, sui traguardi da raggiungere.
Dove voglio arrivare, Eminenza? È più facile da pensare che da dire, perché qualcuno potrà accusarmi di mancanza di riguardo e di eccesso di presunzione. Pure ci voglio provare: Lei un giorno mi disse, dopo una riunione del Consiglio presbiterale nel quale m’ero venuto a trovare in netta minoranza su una mia proposta: «Noi facciamo sempre molto conto sul tuo pensiero, anche se non sempre lo potremo seguire. Tu però non mortificare mai il dono della parresia (libertà di espressione) che il Signore ti ha dato». Io non so se Lei se ne ricorda; io non l’ho mai dimenticato.
Proprio per non mortificare questo scomodo (molto scomodo) dono ricevuto, io Le vorrei dire che ho molto apprezzato, proprio stamattina, le parole di Francesco: «la porpora non è né un onore né una promozione, ma un servizio che richiede abbassamento e umiltà».
Io concluderò questo mio saluto aggiungendo una terza dote alle due richiamate dal papa: il coraggio. Il coraggio di imitare Francesco: nel proporre mete, indicare le strade, infrangere tabù, indicare nuovi orizzonti. Prima fare e poi dire. Oppure, che è lo stesso, un dire facendo, o un fare che è già un dire. Proprio secondo lo stile di Papa Francesco, che ha lasciato in bianco due sedi cardinalizie per dare un cardinale a una diocesi che da 136 anni non ne ha avuto più uno. Di lasciare a casa due candidati che parevano certi, per promuovere un outsider. Perché? Perché così a lui è parso bene fare. Perché lui preferisce il pastore al dottore, il buon cuore al grande cervello, la bontà d’animo alla carriera diplomatica. Dicono che con cinque brevi articoli Lei si sia guadagnata una porpora. E se fosse? Il grande pittore Corot, a chi gli chiedeva quanto avesse impiegato a dipingere un quadro, rispose: «Un’ora. E una vita». Così dev’essere andata per Lei: in quei cinque brevi articoli, c’era tutta la vita d’un pastore. E questo è bastato a Francesco.
Ad multos annos, Eminenza. O meglio: a quanti Le basteranno perché tutto l’olio della Sua lampada, possa ardere a lode di Dio. «Perché nessuna goccia ne vada a marcire in terra»: mi perdonerà, spero, la debolezza di questa autocitazione.
Casalina, 13 gennaio 2013
Don Antonio Santantoni


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